Protagonista al MA*GA di Gallarate, fino al 7 aprile, della personale Condensare l’Infinito, di una “capsule” della stessa mostra da Building, a Milano, dal 16 gennaio al 17 febbraio, e di un’installazione all’interno delle Vip Lounge del Terminal 1 dell’aeroporto di Milano Malpensa – mostre accompagnate da una monografia edita da Johan & Levi – Michele Ciacciofera si racconta, e ci racconta il nuovo progetto.
Quanto è stato importante per te nascere su un’isola, la Sardegna, e crescere su un’altra isola, la Sicilia? Come ha orientato le tue scelte artistiche e la tua poetica?
Tutto quello che mi riguarda nasce e progredisce da queste due isole, anche se in effetti il mio spirito nomade e la mia stessa natura tendono all’esplorazione continua. Certamente, tanto la Sicilia quanto la Sardegna sono costanti fonti di ricerca e ispirazione. La Sardegna costituisce un territorio di ricerca fantastico in cui la dimensione arcaica si confronta con quella attuale. La Sicilia ha una dimensione enciclopedica incomparabile. Confrontare queste due realtà tra loro per poi universalizzarle è un impegno culturale e morale di grande portata per me.
Tu hai sempre lavorato per grandi progetti, da Janas code portato alla Biennale di Venezia nel 2017 alla Library of encoded time del 2020, che chiudeva una trilogia di mostre legate al tempo e alla forma. Ora, questa Condensare l’infinito che porti al MA*GA di Gallarate, da Building a Milano e anche a Malpensa, come si pone all’interno del tuo coerente percorso poetico?
Ampliare la portata di un progetto è il risultato di una esplorazione pluridisciplinare che mi spinge a spostarne continuamente i confini concettuali. La superficie delle cose non mi è mai stata congeniale. Penso che la creazione artistica abbia necessariamente natura rizomatica.
I due progetti che tu citi ne sono certamente un esempio: Janas code è il mio omaggio alla cultura dell’isola in cui sono nato, un progetto che fa dialogare ricerca antropologica, archeologia e ritualità magiche. E’ un ciclo molto ampio che ha dato vita tra l’altro a una serie di sculture come quelle che sono oggi esposte all’aeroporto di Milano Malpensa T1, ma anche alla Reggia di Monza per il progetto Reggia Contemporanea.
Il secondo, The library of encoded time, trae ispirazione dal concetto borgesiano di biblioteca infinita, un’opera sul tempo che continuerò ad alimentare.
Il progetto con cui torno in Italia in questi mesi, grazie alla collaborazione e al lavoro svolto con i due curatori Angelo Crespi e Alessandro Castiglioni, ha natura simile. Già il titolo Condensare l’infinito dà un’idea dell’ampiezza della ricerca che ha preceduto la creazione. Le mostre di questo progetto mirano a creare immaginari spaziali e temporali, un magma indefinito di origine-presente-futuro capace di spingere lo sguardo al di là della contingenza, ipotizzando sulle infinite possibilità che avremmo a disposizione per ridefinire la realtà.
Condensare l’infinito è il risultato di un lungo percorso che parte nel 2015 con la mostra Enchanted nature, revisited.
La tua arte procede per installazioni ambientali profondamente emotive, dove passato e presente si ibridano sostanziandosi in oggetti evocativi, realizzati da te o recuperati, assemblati, accumulati in una sorta di percorso per libere associazioni nelle quali la tua esperienza personale si fonde alla memoria collettiva, tutto con un denominatore comune: un grande amore e un grande rispetto per l’ambiente che ci ospita. Tu credi che oggi l’artista, nel suo ruolo di testimone poetico della realtà, abbia il dovere di schierarsi per la salvaguardia del pianeta?
Credo che l’arte non possa che riflettere l’idea di una natura viva e non possa esimersi dal contribuire a tutelare e valorizzare la continuità ambientale e le biodiversità. Nella mia visione l’artista deve ergersi a partigiano che combatte in difesa della natura, non solo attraverso sia pur importanti posizionamenti teorici, ma anche con gesti pratici a cominciare dall’atto tecnico legato alla produzione artistica.
Questo presupposto si coniuga spesso nel mio lavoro all’idea di memoria e al concetto di lunga durata, entrambi assimilabili alla dimensione mediterranea, come insegnatoci da Fernand Braudel. Concordo assolutamente con la sua definizione di longue durée, quel concetto di pluralità del tempo storico risultato di un’ininterrotta stratificazione di epoche diverse che si sommano, influenzandosi e modellandosi anche quando legate a spazi geografici differenti. Questo si riflette apertamente nei miei lavori che considero sempre come fossero le valigie di un viaggiatore, che percorre senza meta fissa luoghi e tempi indefinibili razionalmente.
In tutto il tuo lavoro, ma in particolare nella mostra che porti oggi a Gallarate e a Milano, è nodale la spiritualità, in questo caso concretizzata nei grandi elementi verticali realizzati in vetro sabbiato o soffiato sulla suggestione delle costruzioni megalitiche e in particolare dei menhir. Tu credi che oggi l’uomo, in una società dominata dalla violenza e devastata dalle guerre, sia alla ricerca di una nuova spiritualità?
Mi sembra evidente che il mondo sia assediato, da tempo, da eventi catastrofici come guerre, sconvolgimenti climatici, derive terroristiche, carestie, flussi migratori ingestibili e dagli esiti drammatici, epidemie epocali e cosi via. Servirà certamente un grande sforzo corale, delle istituzioni e della collettività, per riportare il destino del mondo verso condizioni futuribili per tutti. Questo sforzo deve necessariamente poggiare su basi razionali coniugate a una nuova spiritualità, un umanesimo più consapevole e lungimirante rispetto al passato. Rispondo sì, con convinzione quindi, alla tua domanda circa l’esigenza di una elevazione spirituale come formula per un “rinascimento” del mondo.
Osservare i menhir preistorici o le stele erette dall’uomo nel passato mi ha sempre posto innanzi alla dimensione atemporale della spiritualità che naturalmente collego indissolubilmente all’arte. Spesso questi monoliti venivano eretti per moltitudini, definendo allineamenti nel paesaggio dal carattere misterioso, che lasciano immaginare forme di organizzazione sociale tanto complesse quanto visionarie. Dalla loro collocazione sono passati millenni, non tutti i dubbi sulla loro natura e funzione sono stati dissipati, quel che è certo è che questi monumenti in moltissimi casi hanno attraversato il tempo senza perdere la loro forza estetica e spirituale.
Tu ti muovi su moltissimi mezzi, da una pittura di sapore magico-surrealista alla scultura, dalle installazioni in stoffa e fili all’objet trouvé. Come ti innamori di un oggetto o di un materiale? E perché decidi di eleggerlo a interprete del tuo pensiero?
Amo la materia, ho con essa un rapporto ancestrale indissolubilmente legato alla dimensione intima e sensibile da cui deriva lo spirito della mia ricerca artistica attraverso l’antropologia o viceversa. Questo aspetto spiega la pluralità di tecniche che utilizzo per dare vita ad opere che devono incarnare il mio modo di essere. In questo moto continuo incontro materiali, oggetti preesistenti, frammenti di natura che alimentano il mio desiderio e l’istinto di creare, sommandosi alla conoscenza tecnica già acquisita. Recuperare certe pratiche e certi materiali mi permette di ripristinare una certa umanità, rispondendo ad un istinto e volontà di comunicare.
Del tuo lavoro mi ha sempre affascinato il tuo muoverti anche sulle tracce sonore. Ricordo in particolare The density of the transparent wind, presentato a Documenta 14 nel 2017, in cui si udivano il fragore del mare e le voci dei marinai (Documenta 14, tra l’altro, fu l’edizione che consacrò Cecilia Vicuña, artista cilena con la quale il tuo lavoro ha molti punti in comune). Ora, per Condensare l’infinito, proponi di nuovo al tuo pubblico una traccia sonora. Perché per te è così importante fermare e raccontare la voce della natura?
Amo molto il lavoro della Vicuña e mi piace sapere che tu possa trovare dei punti di contatto con il mio.
La prime esperienze di dialogo tra forme, immagini e suono risalgono a una ventina d’anni fa come nel caso della collaborazione con il musicista Francesco Branciamore, il quale compose appositamente delle musiche per accompagnare i miei lavori del ciclo Silence!. Inoltre nel 2007, in occasione della mostra personale all’Istituto Italiano di cultura di New York, le opere interagivano con le musiche di Diamanda Galás in un ambiente luminoso straniante, per invitare lo spettatore ad un’esperienza immersiva.
Alcuni anni dopo ho avvertito maggiormente l’esigenza del suono come personale modalità espressiva, grazie alla collaborazione con un giovane ma già famoso musicista elettronico italiano, Andrea Blanco fondatore della band DMNDS. Tutte le opere sonore create a partire da quel momento derivano dalla registrazione e manipolazione elettronica di “voci” della natura reale.
Nacque cosi The density of the transparent wind, realizzata per Documenta 14 di Atene e Kassel: uno spazio sonoro di 40 minuti che rimanda all’universo delle rotte del Mar Mediterraneo, concentrandosi sulla vita e l’attività dei pescatori; il loro rapporto con la natura, con le leggi tecnocratiche e, in modo evidente, il loro quotidiano impegno e spirito di solidarietà nella tragedia delle migrazioni.
L’ultima creazione sonora è quella che citi a proposito della mostra del MA*GA. Una serie di suoni registrati nella natura, poi modificati e arrangiati digitalmente che avvolgono sinesteticamente nove grandi sculture-stele.