Filippo Tincolini sbarca a Pietrasanta: “Il marmo è vita, e fa rinascere gli antichi eroi con volti contemporanei”

Non poteva che tenersi qua, a Pietrasanta, in un percorso articolato che vede coinvolte non solo le piazze principali della cittadina toscana patria dell’arte contemporanea, ma anche il Complesso di Sant’Agostino e il Pontile di Marina di Pietrasanta, la grande mostra personale di uno dei nuovi protagonisti della nuova scultura contemporanea, Filippo Tincolini. Toscano, 49 anni, Tincolini da diversi anni si è imposto con uno stile originale e inconfondibile, che unisce la tradizione della statuaria classica, col marmo come materiale privilegiato, e un immaginario giocoso e pop che ha tra i suoi riferimenti le continue contaminazioni con il fumetto, con il cinema di fantascienza, con le ultime scoperte della scienza e della tecnologia.

Promossa dal Comune di Pietrasanta con il patrocinio della Regione Toscana in collaborazione con Liquid Art System e Treccani Esperienze, la mostra, curata da Alessandro Romanini, che inaugura il 15 febbraio a Pietrasanta, si intitola Human Connections, e prevede non solo la dislocazione delle sculture dell’artista nei luoghi-simbolo della cittadina toscana (Piazza Duomo, Piazza Carducci, il Complesso di Sant’Agostino e il Pontile di Marina di Pietrasanta), ma anche un progetto video e fotografico, HC Resonance, firmato da Laura Veschi, che racconta le fasi di lavorazione e il backstage dell’esposizione, oltre a un ulteriore capitolo dell’eposizione, intitolato Rebirth from Waste / Rinascita dagli scarti, rivolto all’inclusione e al sociale, che ha visto il coinvolgimento dell’associazione ANFFAS di Massa Carrara, rivolto ai ragazzi con disabilità.

A conclusione della mostra, Tincolini donerà al Comune di Pietrasanta una sua scultura monumentale, che raffigura uno dei suoi personaggi più iconici, lo Spaceman, astronauta dalla cui tuta emerge, simbolo della forza e della potenza dell’elemento naturale, una cascata di fiori.

Per farci raccontare il progetto della mostra e il dietro le quinte del suo lavoro, abbiamo intervistato l’artista.

Foto Laura Veschi

Filippo, vorrei partire dal materiale che utilizzi da sempre e che contraddistingue il tuo lavoro. Che rapporto hai con il marmo?

Il marmo per me non è solo un materiale, è uno stile di vita, un testimone che mi accompagna sin dall’inizio della mia carriera d’artista. Lavorarlo, per me, significa toccare un frammento di storia della Terra. Il marmo non è come un albero, un pezzo di foresta che ricresce: una volta staccato dalla montagna, non torna più indietro. Per questo lo considero sacro. Se lo tratti con rispetto, con amore anche, il marmo ti restituisce questo amore nel risultato finale; se lo tratti con arroganza, con insicurezza, lui in qualche modo ti restituisce questa insicurezza. È un processo delicato, complesso, che si impara col tempo, lavorando.

E tu, come hai iniziato il tuo percorso artistico?

Io vengo da un paesino di mille anime che si chiama Marti, un paesino nella provincia di Pisa, tra Pontedera e San Miniato, e ho iniziato a lavorare con la materia più di trent’anni fa, sotto la guida di uno scultore lucchese. È stato lui a introdurmi nelle botteghe artigiane, con lui ho fatto la mia gavetta. Per me, ragazzo di campagna, scoprire il lavoro di bottega è stato uno shock benefico, che mi ha iniziato a questo mondo che fin dall’inizio mi è parso subito fantastico. È lì che ho scoperto la mia passione per la scultura, al punto che alla fine ho dovuto per forza iscrivermi all’Accademia a Carrara

Foto Laura Veschi

Perché dici per forza?

Perché è stata come una chiamata. Sai, in famiglia non si parlava d’arte, mia madre era maestra, mio padre perito elettromeccanico, tanto che all’inizio vollero iscrivermi al liceo scientifico. Ma la verità è che io avevo questo pallino, l’arte mi chiamava potrei dire, perché in famiglia c’era un mio bisnonno che era stato un artigiano della Garfagnana, un “formatore”, faceva i calchi delle statuine devozionali, e in casa c’erano alcuni di queste forme, a me affascinavano, e così, dai e dai, alla fine riuscii a spuntarla e andai al liceo artistico. Da quel momento è stata una strada obbligata potrei dire, e sono approdato all’Accademia.

Insomma, era come se il marmo fosse iscritto nella memoria atavica famigliare…

Sì, era una tradizione famigliare che si è risvegliata, persisteva nella memoria, nei calchi che vedevo in casa, nei racconti… e che ha agito in me bambino come una calamita irresistibile.

Filippo Tincolini Bust of Dioniso 2024 Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

Parlando del marmo, prima mi dicevi che va trattato con rispetto. Cosa significa, nella pratica? Per un profano, una pietra è pur sempre una pietra, non è una materia viva…

Ma, vedi, il marmo è il risultato di un processo geologico durato milioni di anni. Nasce dalla sedimentazione organica di micro chioccioline che si formano nei fondali marini, poi, con i movimenti tettonici, si compatta, si frattura e si riforma, assumendo la sua caratteristica struttura saccaroide, fatta di cristalli di carbonato di calcio. Questo significa che ha dietro di sé una storia, un’origine e una trasformazione continua. Lavorarlo vuol dire entrare in dialogo con un pezzo di storia del nostro pianeta.

E nella pratica, cosa significa per uno scultore?

Che c’è un senso di responsabilità nel lavorarlo, perché stai trasformando qualcosa che è stato lì per milioni di anni. Se non lo rispetti, se lo lavori con superficialità, il marmo te lo restituisce: ogni insicurezza, ogni errore rimane impresso nella scultura. È una materia che registra tutto, che conserva la memoria della mano che l’ha lavorata. Ti faccio un esempio pratico: se guardi il Dedalo e Icaro di Canova, puoi notare che in quell’opera c’è una certa incertezza tecnica, perché il Canova era ancora giovane e inesperto, e non padroneggiava ancora completamente la materia: la superficie non è ancora perfettamente levigata, si notano incertezze, imperfezioni. Quando invece guardi le sue sculture più tarde, vedi che il marmo è diventato un tutt’uno con il suo gesto, e la luce scivola sulle superfici in modo perfetto.

Filippo Tincolini Notorious BIG 2024 Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

Chiarissimo. A questo proposito, mi citi il Canova. È uno dei maestri a cui hai guardato? Quali sono stati i modelli che ti hanno ispirato fin da giovane?

Senza dubbio il Canova, ma anche Michelangelo e Bernini. Canova mi affascinava per la sua ricerca della perfezione nella levigatura delle superfici, quel suo modo incredibile di rendere il marmo morbido come la pelle. Michelangelo, invece, mi colpiva per la forza espressiva delle sue sculture, la capacità di estrarre l’anima dalla pietra con una potenza incredibile. Bernini, poi, mi ha fatto comprendere la dinamicità della scultura, la teatralità delle forme, quel senso di movimento eterno racchiuso nel marmo.

E all’inizio questi modelli ti hanno influenzato molto?

Quando ho iniziato a studiare e a osservare da vicino le loro opere mi chiedevo sempre: ‘Ma come diavolo hanno fatto?’. Erano capaci di una maestria tecnica che mi pareva quasi sovrumana. Poi, vivendo a Carrara e immergendomi nel mondo della scultura e delle botteghe, ho capito che non lavoravano da soli. Non esisteva l’artista solitario che creava un capolavoro dal nulla, ma c’era un’intera struttura di supporto: scalpellini, apprendisti, specialisti della finitura… Era un lavoro collettivo, basato su una tradizione tramandata di generazione in generazione. Questa, per me, è stata l’illuminazione che mi ha portato a entrare veramente nel processo di lavoro.

Filippo Tincolini Spaceman light blue Filippo Tincolini Human Connections Piazza Carducci Pietrasanta Foto Laura Veschi

Il lavoro di squadra, di bottega, dunque…

Esattamente. E questo vale ancora oggi. La scultura è un lavoro di squadra, e la mia esperienza mi ha insegnato che i legami umani e professionali sono fondamentali.

E questo concetto è anche alla base del tuo progetto attuale, Human Connections?

Esattamente, Human Connections nasce proprio da questa riflessione. Non è l’artista a essere il fulcro assoluto della creazione, ma tutto ciò che lo circonda: le persone, i collaboratori, il sapere condiviso. La scultura è una sinergia tra mente, mani e materiali, e ogni opera è il risultato di una lunga catena di relazioni. Per me, celebrare questa connessione significa dare valore non solo all’oggetto finale, ma anche a tutto il processo che lo ha reso possibile.

Filippo Tincolini Camazotz 2024 Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

Tuttavia, tu, nel tuo lavoro, utilizzi anche tecnologie molto sofisticate, robot molto complessi… come si conciliano questi due aspetti, quello atavico, artigianale, e quello tecnologico?

La tecnologia non sostituisce la mano dell’artista, ma aiuta a rendere il processo più efficiente. Scanner tridimensionali e robot permettono di alleggerire la fase più dura e pericolosa della lavorazione, lasciando all’artista più energia per la rifinitura e i dettagli. Oggi, strumenti come scanner 3D e robot permettono di ottimizzare questa fase, lasciando più tempo alla rifinitura e alla parte creativa. Uso spesso il termine “addolcire” per descrivere questo processo, perché la tecnologia mi permette di risparmiare energie preziose per concentrarmi sui dettagli, sulle texture e sulle superfici, che sono fondamentali nel mio lavoro. Ogni mia scultura viene lavorata centimetro per centimetro a mano…

Potremmo dire insomma che la tecnologia è un mezzo, non un sostituto della manualità?

Sì, proprio così. Anche se uso strumenti digitali per modellare e prototipare, la fase finale è sempre manuale. È lì che esprimo davvero l’idea che avevo nella testa, nella scelta delle superfici, anche nelle imperfezioni lasciate volutamente, nelle finiture. Alla fine, non conta se una parte è stata fresata da un robot o scolpita con lo scalpello: quello che dà il senso all’opera è l’intenzione dietro il lavoro, il gesto umano che lascia un’impronta indelebile nella materia.

Foto Laura Veschi

E l’intelligenza artificiale, ha un ruolo nel tuo processo artistico?

Nel mio caso potrei dire che sia un ottimo assistente tecnico: mi aiuta a programmare i robot per rimuovere il materiale, ma la creatività resta umana. Io creo il modello, e poi la tecnologia mi supporta nei passaggi più faticosi e ripetitivi.

Ma ha un senso, per la finitura dell’opera, anche la ritualità, il tempo impiegato per lavorare manualmente la scultura?

Assolutamente. La scultura non è mai un processo immediato. Anche quando hai un’idea chiara in testa, lavorare sulla materia può portarti a cambiare strada, a ripensarne alcuni aspetti. Magari pensi di voler colorare una scultura, poi la vedi nel suo bianco naturale e ti rendi conto che non ha bisogno d’altro, va bene così. Il tempo e la lentezza del processo permettono di capire in che direzione vuoi andare.

Filippo Tincolini Eracle hand Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

La tua serie Ancient Gods ripropone i supereroi come divinità moderne. Ci racconti come è nata questa idea? Te lo chiedo perché a me è interessato molto, come critico, questo vorticoso mescolamento tra forme classiche e icone della cultura popolare, che credo che sia una delle caratteristiche più interessanti della nuova scena artistica italiana, e non solo italiana…

Tutto è nato mentre lavoravo sui frammenti del Partenone. Ero a Capri, col mio gallerista, Franco Senesi. Avrei voluto creare un dialogo tra passato e presente, anche per il confronto con quella terra magnifica che reca ancora le tracce degli insediamenti della Magna Grecia, dando nuova vita a frammenti antichi con un intervento contemporaneo. E così ho cominciato a lavorare proprio a partire dai frammenti del Partenone…

Perchè i frammenti?

Vedi, Michelangelo diceva: prendi una scultura, buttala giù dal ravaneto (il luogo dove si fanno scivolare i detriti dalle cave di marmo, ndr), quello che rimane è la scultura. Allo stesso modo, io nella mia scultura vado a togliere quelle cose che tecnicamente disturbano oppure che non funzionano, creo tagli, imperfezioni, lasciando solo l’essenza, il cuore della scultura che rimarrebbe se appunto la buttassi giù da un ravaneto, come se avesse vissuto migliaia di anni e fosse stata ritrovata in uno scavo archeologico…

Foto Laura Veschi

E da lì è nata l’idea degli Ancient Gods?

Proprio così. Mi sono chiesto: e se oggi, invece di ritrovare in uno scavo una testa di Venere, ci trovassimo la testa di Spider-Man? Allora ho iniziato a vedere i supereroi come i nuovi dèi della contemporaneità. Le società del passato veneravano Zeus, Dioniso, Eracle; noi oggi celebriamo Superman, Batman, Hulk…. Il parallelo mi è sembrato immediato e potente: il busto di Superman poteva essere Dioniso, la mano di Hulk rimandava a Eracle, la maschera di Spider-Man richiamava la mitologica Aracne… Così ho voluto trasportare queste icone moderne in una dimensione archeologica, creando ipotetici reperti di un’epoca futura. Ho immaginato proprio di trovarli come reperti archeologici del futuro, come frammenti di una civiltà passata che un tempo li aveva idolatrati. Alcuni li ho lasciati in una patina anticata, come se fossero stati ritrovati in uno scavo, mentre altri li ho dipinti con colori policromi, proprio come si faceva con i marmi dell’antichità.

Certo, perché spesso ci si dimentica che le statue greche e romane non erano bianche, ma policrome…

Esatto. Alla fine, quello che io cerco è un equilibrio tra passato e presente, tra icone antiche e moderne… I supereroi sono il nostro Olimpo contemporaneo, e attraverso il marmo cerco di trasformarli in qualcosa di eterno, come lo erano le statue classiche per le civiltà che ci hanno preceduto.

Filippo Tincolini Inflatable Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

Un’altra serie che amo molto è ‘Dystopian Animals’. Mi piacerebbe sapere da dove nasce quest’idea… Io naturalmente ci ho visto più di un riferimento a molto cinema di fantascienza, a cominciare dal Pianeta delle Scimmie, o a certa letteratura di protofantascienza…

Certo, l’immaginario di Dystopian Animals è profondamente influenzato dalla letteratura distopica e dal cinema di fantascienza. Orwell è sicuramente una delle fonti principali, e in questo senso La Fattoria degli Animali è stata una lettura fondamentale per me… Ma ci sono anche riferimenti al cinema, alle serie animate e alla cultura pop contemporanea. Miyazaki, ad esempio, ha avuto un forte impatto sulla mia visione, perché è un maestro nel creare mondi che sono allo stesso tempo realistici e onirici, pieni di animali umanizzati e ambientazioni surreali… ma anche l’arte ha avuto il suo peso: per esempio, guardando L’onda di Hokusai mi è apparsa davanti agli occhi la figura di un pinguino che ha paura di tuffarsi perché ha disimparato a nuotare…

Filippo Tincolini APE Ak 47 2023 Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

E c’è stata anche un’influenza dei gonfiabili di Jeff Koons?

Sì, sì, assolutamente. Del resto il gioco delle citazioni, ironia e anche una certa malinconia sono sempre centrali nella mia ricerca.

E Spaceman, di cui ora hai donato un esemplare gigante alla città di Pietrasanta, come nasce?

L’idea della scultura nasce durante il lockdown. In quel periodo ci siamo resi tutti conto di quanto la natura possa riprendersi i suoi spazi. Così ho immaginato l’astronauta come simbolo dell’esplorazione umana, ma al tempo stesso come qualcosa di fragile: nella mia scultura, dalla sua tuta esplodono fiori. È un’immagine che può essere letta in due modi: la natura che vince, o anche un virus che prende il sopravvento… Ma per me è importante che ci sia sempre un messaggio positivo: la vita trova sempre un modo per rinascere.

Filippo Tincolini Asian Fighter 2024 Foto Laura Veschi Courtesy Filippo Tincolini Studio

E non a caso il marmo stesso viene dalla natura.

Eh sì, non è un caso d’altra parte che la mia vita si svolga per lo più in montagna, nello studio, a 500 metri sopra il livello del mare, nel cuore delle cave. La natura è quella che io vivo tutti i giorni, che mi dà forza ed energia.

La mostra ha un percorso molto articolato. Oltre agli scatti di Laura Veschi, che ha documentato tutto il backstage del lavoro nelle cave, c’è anche un altro capitolo molto importante, quello della ‘Rinascita dagli Scarti’. Ce ne vuoi parlare?

Sì, è una parte molto importante del progetto. L’idea nasce dalle lunghe conversazioni avute con un caro amico, Lorenzo Porzano (Amministratore Unico di Cermec, il Consorzio Ecologia e Risorse di Massa e Carrara, inventore anche del Festival dei Rifiutati, a cui Tincolini ha preso parte, ndr). Con lui è nata l’idea di coinvolgere i ragazzi dell’ANFAS, Associazione italiana di famiglie e persone con disabilità intellettive e disturbi del neurosviluppo, in un progetto di recupero dei frammenti di scarto del marmo, in una logica di sostenibilità e di condivisione sociale, trasformando questi scarti in opere d’arte. Abbiamo recuperato i frammenti e li abbiamo trasformati in due busti classici, assemblati un po’ come si fa con i muretti a secco. È stata un’esperienza umana incredibile: i ragazzi hanno vissuto il processo creativo, e noi abbiamo ricevuto in cambio un’energia indescrivibile, e dato un senso profondo, umano e sociale, al lavoro.

Foto Laura Veschi

Vorrei farti un’ultima domanda: il tuo lavoro, dal mio punto di vista critico, è perfettamente inserito in quella nuova scena artistica, che io trovo tra le più incisive e innovative della scena contemporanea, in cui la classicità si sposa in pieno con le icone pop tipiche del nostro tempo. Tu ti senti in qualche modo parte di una scena, di una corrente artistica, o preferisci invece vederti come un artista e uno sperimentatore solitario?

Mi sento in pieno figlio del mio tempo. Anche se attingo dal passato, il mio lavoro parla dell’oggi: dalle tematiche all’iconografia alla sensibilità ai colori, fino alle tecniche di lavorazione, il mio lavoro è tutto calato nell’oggi. Non mi vedo dentro uno stile o una corrente precisa, ma quel che è certo è che sperimentare è la mia necessità, e che mi sento inserito nello spirito di questo tempo strano, in cui gli artisti guardano al futuro mantenendo però sempre un forte collegamento con le proprie radici. Se questo è far parte di una scena, allora sì, probabilmente ne faccio parte, ma lascio a voi critici il compito di fare queste connessioni e si tirare le conclusioni…

In copertina: Filippo Tincolini sceglie il materiale all’interno della Cava Michelangelo. Foto Laura Veschi

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