Il rapporto tra la Cultura e il Brand è da decenni oggetto di studio, riflessione, confronto e discussione. A lungo questa relazione è stata prevalentemente vista come una inaccettabile deriva, negativa e pericolosa, del Contemporaneo.
David Lewis e Darren Bridget, all’alba del nuovo secolo, hanno registrato con evidente preoccupazione l’evolvere di “una società dove gli ideali comuni e i progetti politici sono stati largamente rimpiazzati dai significati condivisi che ruotano attorno ai nome delle marche e alle immagini della pubblicità” (The Soul of the New Consumer, 2000, 13).
E Noemi Klein ha da par suo levato un vero e proprio grido d’allarme: “Se i marchi non sono prodotti ma idee, atteggiamenti, valori ed esperienze, perché non possono essere anche cultura?” (No Logo, 2013, 60).
La questione, ad avviso di chi scrive, rappresenta un tema di straordinaria attualità e deve essere affrontata con mente aperta e spirito laico. Non c’è nulla di negativo, e comunque rappresenta un dato oggettivo, nel fatto che oggi “le marche cercano di integrarsi progressivamente nella cultura sociale, fondendo i propri testi con quelli circolanti nella società. Gli stili espressivi proposti dai messaggi delle marche diventano così parte della cultura” (Vanni Codeluppi, 2008, 75).
D’altronde, da tempo ormai “la marca è attore sociale, specchio dei tempi, e quindi deve ‘agganciare’ lo spirito del tempo, l’attualità culturale” (Stefano Traini, Semiotica della comunicazione pubblicitaria, 2008, 128). Ed invero “l’attualità culturale si rivela (…) dimensione centrale e fondativa per il branding. Perché se è vero che la marca è la memoria del prodotto, la somma delle esperienze d’uso del prodotto e della loro reiterazione nel tempo, una sorta in divenire delle impressioni che genera, è anche vero che essa è un attore sociale, uno specchio dei tempi, un riflesso del qui e ora” (Giampaolo Fabris – Laura Minestroni, Valore e valori della marca, 2004, 91-92)
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Concentrando il focus del ragionamento sulla relazione tra Brand e Arte, dalla seconda metà del secolo scorso un fenomeno di peculiare interesse è dato dal marchio Fiorucci. Elio Fiorucci fonda il suo marchio a Milano nel 1967, con l’inaugurazione del primo negozio in Galleria Passarella, realizzato su progetto della designer Amalia Dl Ponte. Il brand da subito si caratterizza per introdurre, non solo nel mercato della Moda, ma nell’intera Società italiana, inediti elementi di trasgressione e di creatività, in virtù anche di una spiazzante commistione con il mondo dell’Arte.
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Non a caso Gillo Dorfles ha definito Elio Fiorucci “il Marcel Duchamp della moda italiana”, accostando la sua attitudine creativa al ready-made. Il marchio conosce da subito un grande successo, grazie alla visibilità fornita al brand da celebrità internazionali del mondo dello spettacolo e da grandi icone di stile, come ad esempio Bianca Jagger, che indossano capi Fiorucci nelle più importanti e pubblicizzate occasioni mondane.
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co OVS San Babila Corso Europa 2013 Courtesy of Love Therapy Archive
Elio Fiorucci, tra l’altro, stringe un rapporto di personale amicizia con Andy Warhol, che sceglie lo store di New York del brand per il lancio della rivista Interview, e affida a Keith Haring la decorazione dell’iconico negozio in San Babila sempre a Milano. I prodotti Fiorucci si rivelano dei veri e propri elementi di rottura nel panorama culturale dell’epoca: le creazioni del marchio risultano autentiche opere d’arte, caratterizzate da colori vivaci, stampe originali e una inconfondibile estetica pop. I negozi del brand, da Londra a New York, si trasformano in stimolanti luoghi di cultura alternativa, dove si succedono performance, mostre e happening, contaminando Moda, Arte e Spettacolo.
Gli stessi store Fiorucci si caratterizzano per non essere dei semplici punti vendita, ma spazi catalizzatori di esperienze immersive, dove si può acquistare abbigliamento, ascoltare musica, partecipare ad eventi e ammirare opere d’arte. L’esperienza del brand, entrata in un cono d’ombra con la chiusura del negozio di San Babila nel 2003 e la scomparsa dello stilista nel 2015, risulta più viva che mai ed oggi acquisisce rinnovato vigore.
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Significativa, in un Contemporaneo nel quale il paradigma della Sostenibilità e i dettami della Complessità fanno sì che tutto si tenga, appare la circostanza che dal 2022 la proprietà del marchio sia passata a Dona Bertarelli, filantropa ambientale di levatura internazionale. Particolarmente interessante, ai fini dei discorsi che qui si vanno svolgendo, appare la recente inaugurazione a Milano, in Via Lomazzo 19, del progetto Circolo UltraFiorucci.
Si tratta di un ex mulino a vapore trasformato in spazio culturale, con il proposito di rappresentare il legame storicamente intercorrente tra il brand e il mondo della creatività, in un dialogo che continua a unire e contaminare Arte e Moda. UltraFiorucci non sarà soltanto uno spazio dedicato a raccontare il marchio e l’azienda, ma costituirà anche un luogo dove ospitare le opere di artisti che ne condividono i valori.
Ha acutamente detto Alessandro Pisani, CEO dell’azienda: “È la cosa più Fiorucci che possiamo fare”. Il manager, riferendosi anche alla direzione di Francesca Murri, ha poi dichiarato che UltraFiorucci “gioca un ruolo cruciale nella definizione del nuovo Fiorucci. La pluralità di voci che ruotano attorno alla visione creativa di Francesca ci permette di aggiungere pezzi significativi alla narrazione per la community che vogliamo raggiungere, in perfetta sintonia con la strategia del brand. Il nostro obiettivo è quello di restituire la rilevanza culturale che ha sempre contraddistinto la storia di questo straordinario marchio”.
Nel fisiologico e ineludibile dialogo tra Arte e Società, dunque, il nuovo progetto di Fiorucci conferma l’essenza del Brand in una “entità discorsiva e semiotica, situata alla convergenza di molteplici reticoli, risultante di una negoziazione permanente tra numerosi attori, proposizione contrattuale permanentemente in competizione con altre proposizioni, costretta a produrre significazione per non regredire” (Andrea Semprini, Marche e mondi possibili, 1993, 71).