Un uomo distinto, Eustace Tilly. Negli anni ‘20 se ne andava ancora in giro con il suo fare da dandy, e quel monocolo inconfondibile. Tutta la sua voglia di stare al mondo col puntiglio dell’eleganza appariva forse un po’ out of time, ma non era importante. Lui puntava il suo monocolo su una delicata farfalla, guardava i dettagli di questo mondo e li analizzava con la sua raffinata sensibilità. E se il mondo correva veloce, lui rallentava. Perché non era decoroso.
Il 21 Febbraio del 1925 usciva il primissimo numero del “The New Yorker”, e con esso Eustace Tilly veniva presentato al mondo intero. Creato dall’artista e fumettista Rea Irvin, l’iconico dandy cartaceo in copertina resta ancora oggi l’emblema della vivace conversazione intellettuale cittadina.
Cento anni sono dunque passati dalla fondazione del fortunato magazine statunitense, che si è distinto per i suoi commentari e le vignette satiriche, per l’attenzione posta agli eventi culturali, e la consistente scelta di includere i racconti d’autore più interessanti della scena contemporanea. Un settimanale che viene pubblicato quarantasette volte l’anno, con cinque edizioni speciali che “valgono doppio”: l’ultima, pubblicata ieri, è il numero che festeggia il centenario. “February 17&24, 2025”, celebra questo compleanno importante dando il via ad approfondimenti, mostre, eventi e box di domande interattive con il proprio pubblico di riferimento. Con i modi raffinati che contraddistinguono il suo dandy-immagine, il New Yorker invita alla contemplazione della sua storia evitando la mondanità della gravosa ricorrenza.
La copertina del New Yorker, si sa, è come una tela ambita: con il suo font deco, è un importante palcoscenico per gli artisti di tutto il mondo. E sembrava impossibile dedicarla a qualcuno che non fosse proprio Eustace Tilly. Non solo il primo a comparirvi, ma legato a quella importante pagina da un rapporto di vicendevole riconoscenza, poiché l’uno ha reso famoso l’altro. La fucina creativa che ne è conseguita ha visto vari artisti cimentarsi con una rappresentazione dell’amato Tilly in chiave contemporanea, rendendo poi i formati cartacei della rivista disponibili con varie vesti grafiche.
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Un ranocchio col riconoscibilissimo outfit è la metamorfosi di Tilly attuata dall’illustratrice canadese Anita Kunz: la sua fiabesca creatura – nei colori, nelle forme e nello stile – crea un impatto visivo rassicurante. Basta però spostare lo sguardo per capire che la stessa farfalla che il dandy era solito osservare, diverrà ben presto cibo. Dov’è finita la delicatezza di Tilly? Dopo cento anni, c’è ancora spazio per l’osservazione o la favola dell’apparenza distoglie il nostro sguardo dalla realtà che ci passa accanto?
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La risposta potrebbe essere nell’interpretazione di Javier Marsical. L’artista spagnolo gioca con l’infanzia, e con il suo tratto pop consegna alla copertina del New Yorker un cane stile cartoon filtrato da un color seppia che profuma di nostalgia. È l’innocenza ad essere rara, in questo momento storico, e il ritorno a quel tipo di fanciullezza può ancora regalarci la possibilità di interagire con la farfalla, proprio come Eustace Tilly.
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Impossibile non citare, poi, la proposta di Kerry James Marshall. In questo che è un capolavoro dell’illustrazione, l’artista americano – noto per le sue black figures – trasporta la visione di Rea Irvin nella nostra epoca. Un Eustace-androide scruta un drone-farfalla. Ma il punto di vista ormai non è più univoco, e la cam del drone ci mostra Tilly così come non lo abbiamo mai visto, aprendo uno squarcio visivo – ma anche storico – su ciò che prima non era alla portata dei nostri occhi. Scrutare il drone è solo un pretesto per favorire la discussione circa la tecnologia e l’intelligenza artificiale, e su come stiano modificando il nostro approccio alla comprensione della natura umana.
Non è la prima volta, comunque, che il New Yorker promuove la reinterpretazione del suo dandy di copertina. Già Carter Goodrich e Kadir Nelson avevano partecipato al progetto “Nine for Ninety”, nel 2015. In un momento in cui era ancora possibile opinare sulla progressiva dipendenza da social media, Eustace Tilly non si accorgeva più della farfalla: che fosse gobbo sullo schermo, o che lo smartphone si ponesse come ostacolo fisico, il dandy di dieci anni fa si lasciava sfuggire la bellezza che gli volava sotto il naso.
Al di là dell’idolo creato da Rea Irvin, tante sono state, negli anni, le grafiche iconiche del New Yorker. Tanto che hanno contribuito a creare il mito stesso della cover illustrata, per quella che è un’attesa settimanale del la prossima creatività permeabile, analitica, critica e costruttiva. Basti pensare all’opera di Art Spiegelman “The New Yorker’s Blackout Cover” dopo l’attacco alle Torri Gemelle nel 2001; o alla famosissima “View of the World from 9th Avenue” di Saul Steinberg (1976); e ancora la meravigliosa “Deadline”, di Bianca Bagnarelli, per il primo numero dello scorso 2024.
Una tradizione leggendaria e aspirazionale: in Italia si sono recentemente sviluppate realtà come “The Milaneser”, “The Venezianer”, “The Napolitaner” o “The Palermitaner”, cover illustrate di un magazine – purtroppo – immaginario per quasi tutte le città italiane. E se la creatività cambia di luogo in luogo, da artista ad artista, resta il denominatore comune del riconoscibilissimo font del New Yorker, assieme al suo prezioso fardello di settimanale apripista nella storia della cultura cittadina.