Formidabili quegli anni. Erano, anche in Italia, gli anni della controcultura, del “personale è politico”, del primo femminismo, dei movimenti di liberazione, dell’immaginazione al potere, della scoperta della creatività diffusa, del “diritto al lusso”, dell’abbattimento dei ruoli all’interno della coppia, della scoperta e della rivendicazione di diversi modi di amare, dei primi movimenti omosessuali e delle lotte per i diritti civili. Gli anni dei cappelloni, dei primi festival vissuti come momenti di liberazione e di rottura di ogni regola, della caduta di steccati di genere, gerarchici, di potere. Gli anni in cui la controcultura non aveva ancora mostrato la sua “parte oscura”, la sua voglia di violenza ancora inespressa, la distruzione nichilista travestita da rivoluzione permanente che sfocerà poi nel periodo cupo del terrorismo e degli anni di Piombo.
Era un mondo, quello, in cui si guardava alla trasformazione dell’individuo, dei comportamenti quotidiani come primo passo per una trasformazione collettiva, rivoluzione della sfera pubblica che doveva prima passare per quella privata, nel costume, nella sessualità, nell’amore, nella famiglia, nei rapporti quotidiani. E anche dell’arte. A raccontarci, oggi, quel mondo che sembra rimasto solo nella dimensione del mito o del ricordo, è una mostra in corso alla Basilica Palladiana di Vicenza (appena prorogata fino al 28 luglio), dal titolo già di per sé assai evocativo, “Pop/Beat-Italia 1960-1979. Liberi di sognare”, nella quale sono raccolte oltre cento opere di un gruppo consistente di artisti italiani che hanno segnato quella incredibile stagione, da Schifano, Ceroli, Festa a Gilardi, Adami, De Filippi, Spadari, Baj Rotella… una “riunione di famiglia” che vede riunita la maggior parte degli artisti che nei decenni Settanta e Settanta hanno saputo interpretare un nuovo modo di essere e di sentire presente nella società, prima ancora che una corrente artistica: quella che, se esteticamente sembrava, in effetti, in gran parte mutuata dalla Pop americana, dal punto di vista dei riferimenti visivi, dei contenuti, dell’atmosfera e degli intenti stessi della prassi artistica, aveva in realtà già in essere molte e significative differenze, in parte perché più politicizzata, in parte perché più intima e raffinata, meno puntata sulla celebrazione del consumismo ma, semmai, a una critica del consumismo e dei suoi effetti nefasti, come l’omologazione del gusto e del linguaggio e una sempre maggior dose di superficialità e di abbassamento di livello dal punto di vista culturale.
A curare questa mostra, tanto rigorosa dal punto di vista scientifico quanto piacevole, divertente e godibile dal punto di vista dell’allestimento anche per un pubblico non avvezzo alle mostre, è Roberto Floreani, artista, pittore, tra i più apprezzati astrattisti italiani con molti e importanti riconoscimenti alle spalle (tutt’ora lavora con importanti galleristi, come Gian Enzo Sperone e la galleria Russo di Roma). Ma se, in qualità di curatore di mostre, Floreani è alla sua prima prova, è però vero che appartiene di diritto alla categoria, un tempo assai folta, oggi leggermente meno, di artisti-intellettuali: studioso delle avanguardie storiche, con un occhio di riguardo per il Futurismo, Floreani possiede infatti una cultura sterminata, una gran quantità di documenti originali, e ha non solo organizzato e interpretato in prima persona spettacoli futuristi seguitissimi e sempre sold out, nello stile (e alla maniera) di Marinetti e compagni, ma anche pubblicato due saggi: Umberto Boccioni. Arte-vita (pagg, 250, euro 23, Electa) e Astrazione come Resistenza (pagg. 380, euro 25, De Piante editore). Nulla di strano, dunque, ritrovarlo, tra la realizzazione di un quadro e l’altro, nella curatela di una mostra di grande rigore storico e con molte sorprese. Una mostra che lo stesso artista, nel testo introduttivo del catalogo, riconduce alla propria esperienza personale: “Dopo aver indagato il Futurismo per oltre trent’anni e la figura di Umberto Boccioni in particolare”, scrive Floreani, “ho voluto approfondire un periodo storico che ho vissuto da testimone oculare, almeno a partire dagli anni Settanta, nelle speranze, nei fermenti, nella voglia di vivere, naufragati nella tragedia degli anni di Piombo e dalla strage provocata dalle droghe pesanti”. “Questi artisti, questi poeti, questa musica”, scrive ancora Floreani, “sono quanto ho visto, letto, ascoltato in quegli anni e che vedo, leggo e ascolto ancora oggi”. Un “sentire comune” di tanti ragazzi di quella generazione, dunque, la cui vita era caratterizzata da “un benessere economico fino ad allora inimmaginabile”, “una potenziale realizzazione dei propri sogni pressocché illimitata” corroborata da un retroterra “propositivo, dinamico, elettrizzante“.
Abbiamo intervistato Roberto Floreani, per farci raccontare il retroterra e l’origine di questa mostra, che opere contiene e quali sono le sue principali caratteristiche.
Roberto, per prima cosa ti chiedo: tu sei un artista molto noto e apprezzato, il tuo lavoro sull’astrazione data da molti decenni e hai avuto e hai tutt’ora riconoscimenti importanti (non per niente lavori con galleristi di prima fila come Sperone e Russo). Da sempre sei anche un teorico, hai scritto saggi e fatto ricerche storiche, in particolare sul Futurismo, e anche spettacoli in cui ricrei le atmosfere futuriste coi testi originali di Marinetti etc. Come mai, ora, hai deciso di affrontare la curatela di una mostra, e come mai il Pop e il Beat, apparentemente lontani dalla tua ricerca e dai tuoi interessi soliti?
Credo che il Novecento sia un unico, meraviglioso e tremendo calderone, con molti più intrecci di quanto si sia scritto fino ad oggi, a partire cronologicamente dal Futurismo, prima Avanguardia Storica del secolo. Da un punto di vista personale sono d’accordo con David Hockney quando afferma che un artista, prima o poi debba fare necessariamente i conti con la storia e chiedersi a che punto si trovi la sua ricerca: queste incursioni, metabolizzate poi nel silenzio dello studio, danno molto significato anche alla mia.
Vicenza e la sua splendida Basilica Palladiana si aprono finalmente al contemporaneo, imprescindibile per un’ambizione di affermazione della città nel contesto nazionale…
La nuova amministrazione, insediata da poco, credo abbia fatto una scelta coraggiosa rispetto al mimetismo durato decenni: la cosa importante è continuare in questa direzione per dare credibilità culturale alla città, provata dalla precedente perdita della capitale italiana della cultura.
Questa mostra ha avuto anche dei grandi risultati dal punto di vista mediatico, con ripetuti, ampi servizi su tutte le reti televisive, intere pagine sui principali supplementi culturali nazionali: hai visto questo successo come una cofnerma rispetto alla tua scelta di fare una mostra rigorosissima dal punto di vista teorico, ma anche molto piacevole e godibile dal punto di vista dell’allestimento?
Sì, il taglio innovativo dato al progetto, proponendo per la prima volta Pop e Beat affiancati, nonché le dichiarazioni degli stessi artisti rispetto alla loro ricerca, hanno portato con tutta evidenza novità sostanziali e quindi un interesse maggiore rispetto alle proposte tradizionali.
Come sei partito per ideare la mostra? Qual è l’idea di fondo che lega gli artisti?
La scritta iniziale all’ingresso della mostra cita Carmelo Bene, secondo il quale per parlare di un artista o di un poeta ci vuole un altro artista e un altro poeta. Da artista ad artista ho privilegiato ciò che i 35 presenti in mostra con le loro cento opere volevano significare: le loro voci, le loro intenzioni, il più delle volte differenti da come sono state poi riferite nei testi e che compongono uno scenario generale con novità significative.
L’esperienza del Pop italiano è sempre stata considerata minoritaria e spesso anche sottovalutata dalla critica e dalla storiografia dell’arte. Che caratteri originali ha e quali sono le personalità più significative?
È giudicata minoritaria in gran parte per l’esterofilia congenita italiana, ma anche per l’enorme, irripetibile occasione persa dalla critica che, con la scuderia nazionale presente pressocché al completo alla Biennale del ’64 ha ceduto alle (generose?) pressioni americane premiando col Leone d’oro Robert Rauschenberg, del tutto estraneo al loro Padiglione nazionale e i cui lavori verranno scaricati in laguna da una nave da guerra. La critica si è genuflessa all’America e il conto lo han pagato gli artisti.
In che cosa si differenzia dalla pop americana?
L’aspetto paradossale è che gli stessi americani già dal 1963 si erano resi conto della grande differenza: Roy Lichstenstein afferma che la Pop non è americana, bensì l’arte della nuova rivoluzione industriale e lo stimato critico Alan Jones si sorprenderà, viste le differenze e la qualità assoluta della proposta italiana, che l’esperienza italiana non si fosse chiamata neo-futurismo. Considerazioni semi-oscurate sui testi in commercio. Pur declinata sull’immagine come quella americana, quella italiana è ricca di reminiscenze storiche, da Perugino a Michelangelo, attenta all’avanguardia futurista, ai nuovi media, al cinema, al paesaggio, all’impiego straordinario di materiali eterogenei: un’altra storia davvero.
Perché hai scelto di concentrarti solo sul pop e beat italiani? Vedi dei punti di contatto con analoghe esperienze europee dello stesso periodo?
Cose note sono la primogenitura Pop in Gran Bretagna con Richard Hamilton nel ’56 e la risposta francese agli americani di Pierre Restany con la Mec-Art, cui peraltro partecipano, dei presenti in mostra, anche Gianni Bertini e Mimmo Rotella; ma credo che la cosa più appetibile fosse uno sguardo nuovo su quella italiana, comunque la più attendibile e variegata.
Che cosa lega il pop e la cultura beat, che tu hai unito nella mostra?
In Basilica va in loop anche la musica di quegli anni: da Caterina Caselli ai Corvi, dalle Orme ai Rokes, all’insegna di quel “sentire comune” di artisti, letterati e musicisti, alimentati dall’ottimismo del boom economico degli anni Sessanta.
Sui può fare una mappatura del Pop italiano anche in base per esempio alla dislocazione geografica, di rimandi e influenze comuni (a Roma la scuola di piazza del Popolo, a Milano il gruppo di De Filippi, Baratella, Spadari e Mariani con Baj, Tadini, Rotella, Alik Cavaliere, etc.)?
Senz’altro in Italia ci sono state delle proposte regionali, ma penso non decisive sulla natura delle opere: ad esempio Ceroli e Mauri, Schifano e Marotta erano di Roma, ma lavoravano su versanti molto differenti tra loro. Solo una regionalità geografica, quindi.
Vedi una continuità con le avanguardie storiche, come il futurismo?
Come citato prima, gli stessi americani ne prendono coscienza dalle dichiarazioni di Alan Jones e la cosa appare chiara anche dalle affermazioni di molti degli artisti presenti, anche oltre l’evidenza del Futurismo rivisitato e degli omaggi a Balla e Boccioni di Schifano, la dichiarazione di Fabio Mauri sarà decisiva secondo cui si può amare il Futurismo senza essere fascisti.
Il beat italiano è stato in fondo poco studiato, ci sono esperienze d’avanguardia poco conosciute che tu hai riportato alla luce, come l’Antigruppo siciliano. Ci vuoi parlare di questo gruppo, chi erano, quali sono le loro caratteristiche e la loro importanza e perché li hai inseriti nella mostra?
Gianni Milano, Aldo Piromalli, Andrea D’Anna sono, per ammissione della stessa Fernanda Pivano, paladina della Beat Generation americana, i nostri Allen Ginsberg e Jack Keouac, quindi personalità di assoluto spicco letterario: preziosa quindi la loro rivalutazione. Quanto allo sconosciuto Antigruppo siciliano, che conferisce alla beat italiana una nuova identità nazionale, meglio precisare che Lawrence Ferlinghetti, il più influente dei poeti beat americani, definirà Nat Scammacca, l’animatore del gruppo, come il miglior poeta beat italiano. Colpevole quindi la sua cancellazione, avvenuta per motivi di gelosia politica da parte del potentissimo Gruppo 63 di Umberto Eco & co., infastiditi dalla feroce critica subita dal versante marxista-leninista, rispetto al loro tradimento nei confronti del popolo, ormai accomodati nei salotti del capitalismo letterario dei grandi editori. È bastato togliere l’Antigruppo dall’oblio perché in Finlandia già si dedicasse loro un convegno. Missione compiuta, quindi.
Una nota a margine: il 12 giugno ci ha lasciati improvvisamente Aldo Piromalli, protagonista entusiasta del progetto inviandoci i suoi libri introvabili di allora, addirittura liriche inedite vergate a mano, nonchè disegnando i fondali delle bacheche presenti in mostra e protagonista assoluto di un mio “mercoledì col curatore”. Buon viaggio, Aldo…
(in copertina: Umberto Mariani, La contestazione mondana, 1968. Particolare)