In My Name: ha senso visitare questa mostra d’arte urbana?

Voglio essere onesto: la mostra “In My Name. Above the show” ha totalmente disilluso le mie aspettative e sì, ci sono rimasto male. 

Premessa: mostre di street art, si o no?

E’ fondamentale fare prima un passo indietro per comprendere le mie sensazioni e soprattutto capire di cosa sto parlando. Oggi siamo davanti ad un grande dilemma legato all’arte urbana e la street art: ha senso trasportarle all’interno dei musei oppure no? La risposta a questa domanda sarebbe stata molto semplice qualche anno fa: no, non ha alcun senso. Una tipologia di arte che nasce tra le strade, si nutre dei problemi quotidiani di chi le vive e si sviluppa per parlare con il contesto urbano non può essere presa tutta d’un tratto ed inserita all’interno delle mura di un museo

Attenzione, però: anche se questa cosa può sembrare un fenomeno recente, ci sono molti esempi di mostre collettive organizzate sul territorio italiano sia da artisti che da curatori esterni al mondo urbano; rimanendo in Italia e senza andare troppo in là con il tempo, sicuramente ha segnato un importante spartiacque la mostra “Street Art Sweet Art” tenutasi al PAC di Milano nel 2007, curata da Alessandro Riva ed ideata dall’allora Assessore alla cultura della città Vittorio Sgarbi; mostra che a suo tempo generò proprio un grande dibattito attorno al tema della “museificazione” della street art che ancora oggi, a distanza di quasi 20 anni, va avanti. 

Io, purtroppo o per fortuna, non ho ancora trovato una risposta a questa domanda che ciclicamente ritorna nella mia testa; non vedo quasi mai di buon occhio le “mostre di street art”, ma il motivo per me è molto semplice: se si chiama “street art” ci sarà una ragione? Un’opera che nasce in strada non può avere lo stesso significato se estratta dal suo contesto iniziale e quindi che senso ha portare la street art in un museo? Per questo motivo da qualche anno oramai quando sento parlare di queste cose parto prevenuto, consapevole del fatto che mi troverò davanti quasi certamente un insieme di stampe che nulla hanno a che vedere con la street art, ma che sono state dipinte utilizzando stencil e bombolette.

Perché questa mostra mi ha spiazzato?

Quindi perché “In My Name. Above the show”, ora di scena a Monopoli, mi ha spiazzato? Perché non mi aspettavo assolutamente di trovarmi davanti ad una cosa del genere.

Tutto è in continua evoluzione e sia l’arte urbana che il mio pensiero non sono da meno. Gli eventi legati al mondo street art si stanno sempre più differenziando tra mostre, esposizioni, percorsi illustrati e live painting. Anche il pubblico si sta evolvendo: gli eventi di nicchia sopravvivono, ma in generale oggi vedo che l’audience è sempre più eterogenea. Quest’ultimo punto è forse una delle pecche più grosse: noto un grande problema con il pubblico che non comprende la differenza tra una mostra ufficiale di Banksy ed una mostra di collezioni private, ma anche questo prima o poi si risolverà.

“In My Name” è un progetto espositivo che nel 2024 si sta ritagliando sempre di più uno spazio interessante all’interno del contesto urbano, ma il pubblico lo avrà capito? La direzione artistica di MADE514 ha permesso di organizzare una mostra che mantiene fortemente il legame con il mondo urbano, distaccandosi dal contesto museale che spesso reputo noioso a causa del suo assordante silenzio e dei fastidiosi bisbigli di chi non vuole recare disturbo o essere notato. MADE514 è riuscito a coinvolgere 17 differenti artisti (lui compreso) e lasciare ad ognuno di loro il giusto spazio per parlare con gli osservatori, interagire con loro dove necessario e raccontare la propria arte. 

L’esposizione non è nemmeno un percorso all’interno dell’arte urbana o della sua storia: In My Name non racconta il passato di questa arte, non espone l’evoluzione stilistica degli artisti, ma è una fotografia di oggi, un’immagine di quello che l’arte urbana offre e può offrire in questo momento, magari strizzando un occhio al futuro.

In My Name: cosa sapere

Con la giusta consapevolezza, In My Name è una potente esposizione di opere di diversa dimensione, di installazioni e di contaminazioni stilistiche ed artistiche, ma richiede una sola cosa all’osservatore: essere curioso. Per comprendere a pieno le opere dei vari artisti presenti all’interno dell’esposizione è fondamentale a mio parere avere idea del lavoro svolto negli anni passati dagli stessi: non dico che sia necessario conoscere il motivo che ha spinto una persona a dipingere sui muri, ma aver visto dal vivo o in foto qualche loro opera tra i muri delle città può innescare una serie di collegamenti unici.

Ad esempio può riattivare delle sensazioni che si provano solo nel contesto urbano come il rumore degli alberi, il caos del traffico, la luce del sole o la pioggia, mentre invece ci si trova all’interno di uno spazio chiuso. Riuscire a ricollegare le sensazioni del mondo esteriore visualizzando delle opere in uno spazio chiuso è difficile. Spetta all’artista il compito di provarci ed all’osservatore quello di avere la consapevolezza di che cosa sta osservando.

Camminando all’interno di questa esposizione si riesce ad interagire con le opere ed osservarle da vicino: la cosa che più affascina è la differenza di stili e di approcci che gli artisti hanno avuto. 

Lopera scultorea di MADE514

Tra tutti cito MADE514: i suoi muri sono gigantesche opere astratte in cui le sue lettere perdono i classici confini e diventano forme colorate, fluide e morbide che si mescolano però con linee più decise e taglienti. Nella mostra espone uno dei suoi ultimi esperimenti: una versione in tre dimensioni della sua arte che passa da essere piatta ad avere una profondità ed essere tangibile, il tutto sempre partendo dal lettering.

E poi V3RBO: artista che ha trasformato le lettere trasformandole in componenti tecnologici avanzati, distruggendole e poi riassemblandole in nuovi elementi dalle forme animalesche. Una sorta di mecha writing che prende vita grazie alla realtà aumentata e diventa navigabile all’interno della mostra grazie ad un apposito visore.

Ogni opera presente nella mostra racconta qualcosa ed esplora diversi percorsi audio visivi: dai più classici bozzetti alle più complesse installazioni, passando per la scultura che permette di visualizzare in tre dimensioni ciò che è sempre stato osservato sulle piatte superfici dei muri.

E quindi perché ci sono rimasto male?

Insomma, quando ho deciso di andare a vedere “In My Name. Above the show” avevo idea di trovarmi davanti alla solita mostra di street art, in cui viene abbozzata una storia riguardante la nascita di questa arte ed in cui qualcuno cerca di spiegarmi il significato di una stampa o di un’opera rubata dal contesto iniziale. Ero pronto a criticare le scelte e scrivere un bel testo divertente in cui spiegare perché non ha senso spendere dei soldi per l’accesso, ed invece mi sono ritrovato a dover consigliare le persone ad andare a vedere questa esposizione. 

Se oggi siamo disposti a pagare un biglietto per andare ad osservare le collezioni private di stampe di Banksy oppure delle riproduzioni fasulle delle sue opere, allora perché non provare a fare un passo in là, immergersi in uno spazio enorme, circondati da opere contaminate dallo stile di writer/artisti cresciuti utilizzando principalmente la bomboletta come strumento e magari uscirne come me, delusi, ma in senso positivo?

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