A poco più di trent’anni dalla sua scomparsa, Keith Haring e gli omini protagonisti delle sue iconiche opere si battono ancora per i diritti della comunità LGBTQ+.
Pittore, writer attivista socialmente e politicamente impegnato: sono queste le parole chiave che brevemente descrivono l’artista e l’arte di Keith Haring, uno degli artisti più iconici che hanno segnato gli anni ‘80.
Dagli esordi di Pittsburgh, Pennsylvania al debutto nella Grande Mela.
Keith Haring dimostra sin da piccolo una grande passione per il disegno, in particolare per quello in stile fumettistico e dei cartoni animati. Il suo genere preferito e da cui ha tratto maggiore ispirazione era quello dei fumetti di Dr. Seuss e dell’iconico Walt Disney.
Incoraggiato dal padre che lavorava come grafico per una grande azienda, inizia gli studi d’arte a Pittsburgh, in Pennsylvania. Ben presto però dimostra di non essere esattamente uno studente modello e, abbandonati gli studi di grafica pubblicitaria si trasferisce a New York dove frequenta per un periodo la School of Visual Art. Non terminerà mai gli studi ma la laurea gli verrà riconosciuta comunque dopo la sua morte.
La metropolitana di New York come laboratorio del graffitismo di Keith Haring.
E’ nel contesto della Grande Mela che Haring riesce veramente ad esprimersi sia come artista che come individuo. Il fermento artistico e culturale della città porta a definire la sua identità artistica e il suo stile che si esprimerà nel graffitismo e nell’arte urbana.
Tra i personaggi che incontra a New York e con cui stringe amicizia c’è anche l’artista Jean-Michel Basquiat, importantissima figura del panorama pop-americano degli anni ‘80.
Anche l’altro grande nome della pop-art, Andy Warhol è stato decisivo nella crescita artistica di Keith Haring.
Dal padre della pop-art, Haring trae proprio la dimensione popolare dalle opere di Warhol. Questo lo porta a dedicare la sua carriera alla creazione di una vera arte pubblica.
Keith porta la sua arte nelle strade e le prime opere che realizza sono dei disegni che colorano i pannelli pubblicitari della metropolitana newyorkese. Questi spazi diventano per lui un vero laboratorio creativo in cui sperimentare e mettere a punto il suo stile e far conoscere la sua arte.
Un’unica linea di contorno fumettistico che crea delle sagome bidimensionali, degli omini stilizzati su una tavolozza di colori accesi, sono questi i soggetti e i tratti distintivi delle sue opere.
I “Radiant Boys” di Keith Haring
Questi personaggi che animano la maggior parte delle opere di Keith Haring sono noti anche come “Radiant Boys” bambini raggianti, luminosi.
Haring li rappresenta come figure stilizzate – senza età o etnia – che giocano, danzano e spesso si intrecciano tra loro.
Omini “Agender” di cui non è possibile distinguerne il sesso che diventano così delle vere icone della lotta alle discriminazioni di genere in favore dell’inclusione.
Il fine è quello di comunicare un senso di unione e comunità che, non tenendo conto del genere, della razza o dell’orientamento sessuale, si pone al di sopra di ogni tipo di disuguaglianza o discriminazione.
“L’arte è per tutti”.
«L’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare», affermava lo stesso artista. Per farlo Keith Haring non sceglie i musei o le gallerie, ma luoghi pubblici e le strade, dove ogni opera può essere alla portata di tutti.
Il suo stile potrebbe essere definito giocoso e infantile per la sua semplicità e immediatezza, ma in realtà si fa portavoce di un messaggio universale di uguaglianza. Un’arte per tutti e in cui tutti si identificano.
Attivismo sociale e politico nelle opere di Keith Haring
Se dovessimo scegliere un’opera che rappresenti questo concetto di uguaglianza, sarebbe l’ultimo murales da lui realizzato prima di morire, una sorta di “testamento artistico” dal titolo “Tuttomondo“.
E’ considerato tra i suoi lavori di urban art più iconici e decora una parete del Convento di Sant’Antonio a Pisa. Un’esplosione di colore in cui trenta figure si aggrovigliano in 180 metri quadrati a formare un gigantesco puzzle.
Dai temi pacifisti dell’uguaglianza, si passa però anche all’attivismo politico con uno spirito provocatorio. E’ il caso dell’opera “Pop Shop III” del 1989, in cui Haring utilizza la metafora del “non vedo, non sento, non parlo”. Le classiche scimmie vengono qui sostituite da tre dei suoi omini, per denunciare chi non vuole trattare tematiche scomode come i diritti umani o le malattie sessualmente trasmissibili, un altro dei temi che, come vedremo, gli sono più cari.
Keith Haring diventa un’icona Queer e di riferimento importante per la comunità LGBTQ+ con il suo impegno attivo nella lotta contro le discriminazioni e le disuguaglianze sociali.
Il suo coming out è stata un’azione di grande coraggio e non facile per quegli anni.
Solo il 17 maggio 1990 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), cancella l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali.
Lo stigma dell’AIDS e la Keith Haring Foundation
E’ la fine degli anni ’80 quando Haring scopre di essere sieropositivo. In questo periodo la malattia era vista come uno stigma che veniva principalmente associato con l’omosessualità.
Durante gli ultimi anni della sua vita, Haring si dedicò attivamente per parlare della sua malattia e generare consapevolezza sull’AIDS.
Nel 1989, l’anno prima della sua morte avvenuta a soli 31 anni, fonda la Keith Haring Foundation per aiutare le associazioni che si occupavano delle persone malate di AIDS.
Keith Haring ha lasciato tracce artistiche del suo passaggio in giro per tutto il mondo. Tante di queste opere pubbliche, sono state realizzate per enti di beneficenza, ospedali ed orfanotrofi.
Un’intramontabile icona artistica che ha segnato una generazione e che tutt’oggi con la sua arte semplice ed immediata, ci ricorda valori umani fondamentali e imprescindibili.
Cover photo credits:
Tseng Kwong Chi, Keith Haring, Bad Boy, Bordeaux France, 1985, Courtesy of Eric Firestone Gallery.