L’estetiche biomorfiche e l’iperrealismo straniato di Eva Fábregas

Comprendere il mondo da una prospettiva naturale è quello che epistemiologicamente siamo abituai a fare. Ci basiamo su quello che vediamo e, tradizionalmente parlando, interpretiamo il mondo attraverso modelli scientifici che emergono dalla pura osservazione e analisi del mondo. Un approccio analitico, questo, che trascura interpretazioni soggettive che influenzano il nostro modo di comprendere la realtà. Nel Manifesto del nuovo realismo (2012), Maurizio Ferraris scrive che “posso sapere (o ignorare) tutto quello che voglio, il mondo resta quello che è”. 

Il problema nasce, tuttavia, quando si originano meccanismi sconosciuti, innominabili o quando la realtà viene alterata o deformata. Si sperimenta che il mondo non è esattamente come pensavamo che fosse; ossia, lo concepiamo come strano, soprannaturale, non in senso religioso o mistico, ma piuttosto sospetto, equivoco, erroneo. In questo senso, Mark Fisher in The weird and the eerie (2018) ci spiega che se lo strano è una sensazione che nasce da una presenza che ci circonda e che non dovrebbe stare lì in quel momento; sfida, pertanto, le leggi della natura mettendo in discussione la nostra conoscenza; l’inquietante, invece, si manifesta quando c’è una mancanza di assenza o mancanza di presenza, vale a dire, una minaccia che non si manifesta completamente e che è avvertita in modo disturbante. 

Eva Fábregas, artista catalana, nota per le sue opere che mescolano il linguaggio del corpo con elementi di estetica digitale, si immerge in territori biomorfici che contengono un panorama di elementi tanto dell’iperrealismo anatomico che del cyberpunk in dialogo fra loro. Se l’iperrealismo si caratterizza per rappresentazioni del corpo umano estremamente fedeli alla realtà, spesso enfatizzando, con dettagli minuziosi, le sfumature più nascoste; il movimento del cyberpunk porta l’idea di modifiche avanzate del corpo attraverso la tecnologia, un upgrade che mette in contrasto il corpo naturale con quello meccanico e facilita l’accesso al contesto della distopia. 

Photo by Belen de Benito

In questo senso, Fábregas dà vita a istallazioni astratte che oscillano tra l’umano e il post-umano, porta alla luce dettagli estremi, giocando, da un lato, con la plasticità e, dall’altro, con vibrazioni sonore che le animano, proprio come nell’istallazione Devouring Lovers, tenuta nella sala storica all’Hamburger Bahnhof di Berlino nel 2023. Si originano monumentali e morbidi gonfiabili, fatti di silicone e materiali sintetici, che compongono una coreografia di frequenze aerodinamiche: un’esperienza tattile, questa, sensoriale e sensuale, che provoca un senso di disorientamento e meraviglia. La componente erotica, evocata da dildo e giocattoli sessuali è certamente presente, ma non primaria. È piuttosto un mezzo che proietta Fábregas al confine.

Devouring lovers Installation at Hamburger Bahnhof, Berlin

Ancora in corso l’esposizione collettiva “Preludio, intenciones poèticas” al MACBA di Barcellona fino ad aprile prossimo, dove le sue sculture richiamano le viscere ma sembrano essere creature aliene che respirano, pulsano e evocano una presenza che è al tempo stesso organica e sintetica, familiare ed estranea. Come nel caso del weird e dell’eerie di Fisher, l’iperrealismo di Fábregas è qualcosa che non si lascia mai completamente definire. Vale a dire, se l’iperrealismo tradizionale imita la realtà nei minimi dettagli, nel caso di Fábregas questo approccio viene spinto al limite e deformato. Le sue sculture rappresentano corpi e forme che sembrano iperrealisticamente biologiche, ma sono anche trasformate, ingigantite e distorte fino a diventare ambigue. Infatti, in un’intervista rilasciata ad Apartamento magazine ci ricorda “Stavo riflettendo su come modelliamo i nostri corpi o su come i nostri corpi modellano queste forme, e volevo realizzarle in una scala tale da renderle irriconducibili al nostro corpo. In sostanza, sono i nostri vuoti, ma ingigantiti”.

In questo senso, il suo iperrealismo è un’esasperazione della realtà: ciò che vediamo ci sembra familiare e riconoscibile, ma allo stesso tempo indefinibile. È proprio questo elemento di indeterminatezza che seduce e che suscita il desiderio di ricerca nell’atto dell’avvicinamento e del tatto. Più che iperrealismo tradizionale, è un iperrealismo “estraniato” dove si avverte una tensione tra il noto e l’ignoto, tra il corporeo e il post-umano. Non è un caso che nel dossier “Plastics” della rivista Esse, Fábregas venga affiancata al lavoro di Pleun van Dijk in cui la plastica viene vista come “potenziale agente per cogliere il nostro futuro sintetico”. Celebre è la performance Replika al Roskilde Festival nel luglio del 2018 in cui van Dijk mette in scena una linea di procreazione umana in silicone che si deforma fino a produrre creature indefinite, perturbanti, direbbe Freud, e che richiama le attuali discussioni sul post-umano e sul mondo speculativo futuristico. 

Anne-Marie Dubois, autrice dell’articolo “Plastic Skins”, ci ricorda che “senza dubbio, dobbiamo rimanere critici di fronte alla mutazione plastica che caratterizza il Plastocene e alle sue conseguenze sulla salute dei nostri ecosistemi. E dobbiamo anche ammettere che questa trasformazione ci sta spingendo verso un nuovo approccio epistemologico e materiale ai nostri corpi, oltre le strutture binarie che finora hanno plasmato la nostra comprensione del vivente”

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