Picasso e la sindrome del minotauro

Come si fa a parlare male di Picasso, vi chiederete voi, che fa i botti alle aste, fa impazzire i collezionisti e che nei musei fa il pubblico di un derby? Il punto è che non sono proprio sicura che lui, il minotauro, considererebbe un “parlare male” il dire che usava le donne come una sorta di ricostituente e che dopo l’uso le accartocciava e le gettava via. 

È tutto fiero di sé quando la compagna del momento Dora Maar e l’amante di lungo corso Marie-Thérèse Walter – rimasta nei paraggi solo perché gli aveva dato una figlia: Maya – si azzuffano ai piedi della grande tela di Guernica, ancora in lavorazione. Lui racconta l’aneddoto come qualcosa di incredibilmente divertente di cui andare fiero.

Non bastano la bulimia sessuale, l’appetito insaziabile, la curiosità, il bisogno di giovinezza e di bellezza a spiegare l’uso consumistico che il maestro fa delle donne. La motivazione va cercata più nel profondo. Forse nel rapporto simbiotico con la madre. Innanzitutto è lei che si chiama Picasso: lui sarebbe un banale Ruiz y Blasco, e se certamente il cognome materno è più originale e più adatto a diventare un brand, aver deciso di far passare alla storia la famiglia di lei non è una scelta da poco. Ma forse, più semplicemente, alla base dell’atteggiamento narcisista e vampirizzante dell’artista c’è un bisogno di sopraffare le cui radici non sono mai facili da rintracciare.

Françoise Gilot, a lungo sua compagna e autrice – dopo la separazione – del libro autobiografico Vita con Picasso (che lo ha fatto arrabbiare non poco) racconta che lui, in un momento di rabbia, si sarebbe lasciato andare a dire che le donne, una volta abbandonate, andrebbero bruciate. Lei (che è vissuta centodue anni, forse perché dopo quella storia si era parecchio fortificata) non ha fatto una piega, e non appena lui ha accennato a spegnerle una sigaretta in faccia, ha preso i bambini e se ne è andata (la leggenda narra che lui abbia urlato: “Nessuna lascia Pablo Picasso!”, e lei abbia risposto: “Aspetta e vedrai”).

Lei, tuttavia, donna anziana, saggia, una vita ricostruita accanto a un altro (non proprio una nullità, visto che si trattava di Jonas Salk, l’inventore della vaccinazione contro la poliomielite), parlava ancora di Picasso con una nostalgia amara, quasi con rimpianto, dicendo che “è molto più interessante vivere momenti tragici con persone interessanti che una vita meravigliosa con una persona mediocre” (e speriamo che non si riferisse al povero Jonas…).

Comunque, quando diceva che le ex le avrebbe volute bruciare, Pablo mentiva: gli piaceva troppo tenere il piede in due o tre scarpe, attizzare le liti – vedi per l’appunto quella davanti a Guernica – e assistere al declino della sfortunata di turno. Non oso immaginare quanto si sia divertito a schiacciare la povera Dora Maar (da lui scelta, non a caso, per interpretare “la donna che piange”) fino a estinguere tutto il fuoco che aveva dentro e a mandarla al manicomio. Lasciandola a uno sconsolato Jacques Lacan, a cui lei disse che non si era suicidata solo per privare il suo ex della soddisfazione.

Comunque il conto è presto fatto: una degenza psichiatrica e due suicidi, quello di Marie-Thérèse Walter, che si impicca quattro anni dopo la morte dell’artista, e quello dell’ultima moglie, Jacqueline Roque, che si spara tredici anni dopo esserne rimasta vedova. 

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