Riscoprendo Dresser. Una conversazione con Claudio Gulli della Collezione Valsecchi

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Una conversazione con Claudio Gulli, direttore della Collezione Francesca e Massimo Valsecchi di Palazzo Butera a Palermo.

L’appuntamento è per le 12, sono puntuale. Ogni volta che entro in questo palazzo ho la sensazione di essere a casa di qualcuno. E questo qualcuno (Massimo Valsecchi) si diletta a fare composizioni strane con le foglie e i fiori che cadono sul selciato dei cortili. Chi è già stato qui lo sa, può capitare di vedere Francesca e Massimo Valsecchi aggirarsi tra le sale, durante una visita. Sale che sembrano arredate piuttosto che allestite, infatti non ci sono nemmeno le didascalie vicino alle opere. 

Infatti sei a casa loro. Chiarisce subito Claudio. Francesca e Massimo abitano qui e questa collezione proviene principalmente dalla loro casa di Londra. Il grosso nucleo di opere d’arte antica proviene da lì, mentre l’arte contemporanea proviene dalla galleria di Milano.

Poi vede alcuni libri che ho portato con me. Tra questi c’è il mitico Pevsner (praticamente una bibbia per chi studia storia del design!) che ci porta subito al cuore della questione.

Ecco, per noi i pionieri del design non sono quelli di Pevsner. Anche se va detto che Pevsner ha avuto il grande merito storiografico di aver aperto ad un campo di cui nessuno sapeva nulla e di cui, di fatto, nessuno sa granché ancora oggi!

In effetti Pevsner non ha dato il giusto risalto alla figura di Dresser che, al contrario di Morris, è stato considerato per troppo tempo il minore di una storia dimenticata.

Non è che dobbiamo andare verso una delegittimazione di Morris per una rivalutazione di Dresser, sono due di un periodo molto articolato in cui vi sono tante figure e poi non è che c’è solo Dresser.

Certo, c’è anche Godwin, ad esempio, a cui avete dedicato un’intera sala. Tuttavia, senza voler sminuire nessuno, si può senz’altro affermare che Morris e Dresser sono molto diversi. Il primo fonda una ditta ed ha un atteggiamento più imprenditoriale, il secondo, è essenzialmente un progettista, un designer ante litteram. Entrambi scrivono, ma chi dei due potrebbe essere definito un teorico secondo te?

Se dovessi scegliere chi dei due definire teorico di sicuro sceglierei Morris. C’è da dire che quella lì è una generazione che ha un rapporto con la teoria molto pronunciato, qualunque designer, chi più chi meno, scrive. Morris è sicuramente, come dici, il più imprenditore dei due ma è anche quello che teorizza una forma di design protosocialista. Cosa che Dresser non fa, e questo lo porterà ad essere meno amato dagli studiosi marxisti del Novecento. 

Dresser non viene compreso per lungo tempo. Proprio lui che aveva capito una cosa fondamentale, che ci può essere qualità anche nella produzione in serie. Morris, invece, fa tutta una prosopopea contro la macchina per poi realizzare delle cose costosissime che possono permettersi solo le élite. Un vero radical chic! 

Certo, sono totalmente d’accordo, e questo gli viene rimproverato già all’epoca. Anche Dresser fa delle cose che nessuno compra, però adatte alla produzione industriale.

Anche se raggiunge le sue vette dopo il viaggio in Giappone del ‘77 (parlo ovviamente delle  creazioni per Hukin and Heath, James Dixon & Sons e Linthorpe), Dresser si rivela originalissimo sin da subito e alla sua morte ci lascia una “collezione di curiosità” fatta di oggetti provenienti da tutto il mondo. Non solo dalla Cina e dal Giappone, dunque, ma anche dalla Persia, dall’India, dalla Giamaica, dalla Siberia, dalla Romania, dall’Africa, dalla Nuova Zelanda, dall’Egitto… Penso che questa indole da collezionista deve aver fatto breccia nell’immaginario di Massimo Valsecchi.

È dall’inizio degli anni Settanta che Massimo colleziona Dresser. Quando lui inizia a comprarlo Dresser è totalmente sconosciuto, quindi è anche conveniente. Ci sono dei momenti in cui si intensifica in lui la predilezione per certi oggetti. C’è il momento degli acquerelli e c’è il momento dei mobili inglesi, ma la collezione di Dresser parte molto presto e con il tempo diventa uno dei suoi prediletti, tanto che gli dedica una mostra. 

Ti riferisci alla mostra del 2001 da lui curata alla Triennale di Milano, la prima in Italia su Dresser.

Esattamente. Dresser, in qualche modo, è una sua creatura. È diventato una figura consolidata anche dal punto di vista critico grazie a questa mostra che è stata fondamentale. Infatti dopo ne è stata fatta un’altra al Victoria and Albert e un’altra ancora negli Stati Uniti. Massimo ha avuto l’idea e ha curato la mostra, anche l’allestimento è stato ideato da lui, i testi in catalogo invece sono di Michael Witheway.

Qual’ è la formazione di Massimo Valsecchi?

Inizialmente Massimo si interessava di botanica, poi si è interessato di economia, lavorava nel campo delle assicurazioni prima di fare il gallerista.

Che strano, di botanica, proprio come Dresser.

Certo, e non è un caso che Massimo abbia scelto un designer botanico. Questa cosa viene fuori anche perchè lui fondamentalmente ha una visione della natura che sconfina nell’arte. Con Dresser, soprattutto, si vede quanto l’analisi delle piante generi un modo di disegnare. Si vede anche qui a palazzo Butera, nel modo in cui è trattato il verde, nella passeggiata o nelle corti. C’è un modo “dresseriano” di guardare la natura.

E poi ci sono le composizioni con le foglie e i fiori che si possono notare passeggiando tra i cortili. Massimo le realizza da solo o c’è uno scambio collettivo?

Ognuno di noi le può accrescere. Lì però conta di più lo scambio con i Poiret, è un modo di guardare alla natura ancora diverso rispetto a Dresser. 

All’interno della collezione Valsecchi qual è l’oggetto di Dresser che preferisci?

Io non riesco ad avere un approccio estetico puro o da collezionista come i Valsecchi. Per mia fortuna direi, perché poi ognuno deve mantenere il suo approccio. Di sicuro la cosa che mi interessa più di Dresser è questo aspetto appropriativo rispetto a cultura giapponese e quindi anche l’aspetto collezionistico di cui parlavi prima.  Diciamo che al Dresser più definito delle cose di Hukin and Heath, preferisco quello dove è più incerto e passa da un vocabolario all’altro, come il vaso rosa con scarabeo.

Il giapponismo ha davvero prodotto le basi dell’arte moderna europea, è come un seme da cui sono usciti figli diversissimi tra loro: da un lato gli impressionisti, dall’altro l’Art Nouveau. E in mezzo c’è Dresser.

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