Ron Mueck alla Triennale, l’inquietudine del reale

È un incipit spettacolare – la scultura gigantesca di una donna distesa nel suo letto, ancora mezzo addormentata, con lo sguardo perso nel vuoto, come a inseguire il filo di un ricordo che proprio mentre sta cercando di mettere a fuoco sembra già sfuggirle –, quello che la Triennale di Milano, ci propone, in collaborazione con la Fondation Cartier pour l’art contemporain, come ingresso alla straordinaria mostra di Ron Mueck, scultore australiano nato nel 1958, ma che dal 1986 vive nel Regno Unito, dove crea, metodicamente, in solitudine e in silenzio, con l’ausilio unicamente di un paio di assistenti, le sue sculture di uomini, donne, bambini o animali quasi sempre fuori scala – a volte immense, a volte piccolissime, quasi delle miniature, come il minuscolo corpicino di neonato attaccato a un muro, come fosse crocifisso, anch’esso in mostra oggi alla Triennale –, accuratamente lavorate fin nei minimi dettagli, dalla più infinitesimale impurità della pelle alle rughe del volto fino all’attaccatura dei capelli o di ogni singolo pelo del corpo. 

Un incipit perfetto, dunque, per una mostra che, nel visitarla, restituisce il sapore di certi strani sogni mattutini, di quei sogni che, al risveglio, ti lasciano l’impressione di aver vissuto un’intera esistenza parallela della quale, prima di dormire, non conoscevi nulla, e che pure, nel sogno, appariva più reale, più credibile, più consistente della realtà in cui ti trovi normalmente a vivere; dove anche ciò che nel mondo normale ti parrebbe strano, lì appare invece perfettamente logico, coerente: una stanza piena di teschi giganteschi; tre spaventosi cani neri, mastodontici e terrificanti, come antiche creature mitologiche, che ti scrutano con aria minacciosa, pronti ad attaccarti; una donna in miniatura, una lillipuziana, che tiene in bilico sulla sua pancia un gruppo di fascine che sta trasportando con fatica, come fanno le formiche quando cercano di portare bastoncini per noi minuscoli, e per loro immensi. 

Una porta sull’inconscio

Un mondo parallelo, inquietante, di cui non riusciamo a tutta prima a decifrare il senso, ma che ci turba nel profondo, che smuove in noi qualcosa che non conoscevamo, e che ci affascina allo stesso tempo, ci emoziona, attingendo a una sfera del nostro inconscio sepolto dentro di noi da anni, forse da decenni o da centinaia d’anni. Che ha che fare con noi ma anche con storie antiche, misteriose, fuori dalla nostra portata e dalla nostra stessa conoscenza razionale. Una porta sul nostro inconscio più profondo, su ciò che noi stessi conserviamo dentro ma non sempre riusciamo a riconoscere.

Quello su cui lavora Ron Mueck è ciò che già Freud denominò col termine Unheimliche, “il perturbante”, che, anche se non completamente comprensibile nemmeno per noi stessi, genera in noi un senso di inquietudine, di “terrifico”, di spaventoso”, provocando una destabilizzazione delle nostre convinzioni consolidatesi nel tempo. 

E destabilizzante è, senza dubbio, l’installazione principale ospitata dalla Triennale di Milano, Mass, del 2017, proveniente dalla National Gallery of Victoria, Melbourne, e già ospitata precedentemente a Parigi alla Fondation Cartier, formata da un centinaio di teschi di dimensioni colossali, creati in fibra di vetro e resina poliestere, disposti sul pavimento in modo sparso, caotico, quasi fossero i reperti archeologici di una civiltà sepolta di un’epoca pre-umana, riapparsi dopo lo scavo di un sito mai scoperto prima d’ora: teatro di una catastrofe avvenuta in un’epoca remotissima del mondo, di tempi dei quali ci rimane la memoria solo attraversi miti, favole, leggende – vestigia di un’Atlandide miracolosamente tornata oggi alla luce, reperto di epiche battaglie mitologiche, quando sulla terra esistevano soltanto i giganti e gli dèi, in lotta tra di loro. 

Il solo paragone che viene in mente di fronte a questa straordinaria e inquietante installazione, nel campo dell’arte contemporanea, è quello con la Calamita Cosmica di Gino De Domincis, immenso scheletro umano, o pre-umano (o forse alieno), di un essere alto 24 metri, dotato di un lunghissimo naso aquilino, dal cui dito medio della mano destra si dirama una lunga asta dorata – la “Calamita Cosmica” appunto –, sorta di magnete rivolto verso l’universo, che funge da collegamento tra la terra e il cielo. Anch’esso, come i teschi di Ron Mueck, crea allo spettatore, nel vederlo, una sensazione di inquietudine, di mistero, di segreto straniamento. 

Un sentimento che lo stesso Mueck, in una delle rarissime interviste che ha concesso, ha descritto come la sensazione di “un gigantesco memento mori”: “Il memento mori e la tradizione della vanitas nell’arte”, ha detto, “ci ricordano la brevità della vita”. Aggiungendo che, nel realizzare quest’installazione, ha pensato “alla Piramide di teschi di Paul Cézanne (un quadro del maestro francese del 1901, che rappresenta quattro teschi ammonticchiati uno sull’altro, ndr), ai campi di sterminio cambogiani e alle catacombe di Parigi. Tutti questi”, ha aggiunto, “hanno avuto un ruolo importante nello sviluppo di Mass”.

Una tecnica imparata costruendo bambole

Ma è soprattutto con le sculture più “tradizionali”, che ricreano alla perfezione la forma, l’epidermide, persino i più piccoli difetti di un corpo umano, che Ron Mueck ha raggiunto la sua fama, e che tutt’ora caratterizzano il suo lavoro. Sculture perfettamente realistiche, ma sempre in una scala del tutto avulsa dalle dimensioni reali: o troppo grandi, come Big Man del 2000, rappresentazione di un uomo nudo, calvo e sovrappeso, sulla quarantina, accovacciato in un angolo con la parte sinistra del viso appoggiata al braccio sinistro e il braccio destro incrociato, o l’immenso Boy alto 5 metri ed esposto alla Biennale di Venezia del 2001, o ancora A Girl, del 2006, una gigantesca neonata lunga più di dieci metri; oppure troppo piccole, come la scultura che lo rese celebre, Dead Men (la riproduzione in scala ridotta di suo padre, nudo, che presentò nella mostra “Sensation: Young British Artists from the Saatchi Collection” del 1997 alla Royal Academy of Arts di Londra), o come nel caso del piccolissimo corpo di neonato esposto ora a Milano, anch’esso di dimensioni mignon.

La sua tecnica deve molto alla sua formazione famigliare. Nato da produttori di giocattoli tedeschi, Mueck ha coltivato infatti fin da giovane la passione per il lavoro manuale e l’attenzione quasi maniacale ai dettagli iperrealistici, aiutando i genitori nella creazione di bambole e continuando a lavorare, successivamente, nell’industria televisiva e cinematografica, contribuendo anche a progetti iconici, come il film “Labyrinth” del 1986, con David Bowie, per il quale l’artista ha progettato personaggi indimenticabili come Ludo, la gigantesca bestia divenuta nel tempo un vero e proprio oggetto di culto.

Nonostante la mancanza di una formazione artistica tradizionale, Mueck affina le sue abilità nel mondo degli effetti speciali, del modellismo e dell’animatronica. Nel 1996, crea una figura di Pinocchio per sua suocera, la celebre pittrice Paula Rego, attirando l’attenzione di Saatchi, che comincia ad acquisire le sue sculture. Da quel momento prende realmente il via la sua carriera espositiva.

Le sue sculture iperrealiste – ne ha realizzate una cinquantina circa in 25 anni di lavoro –, si concentrano ossessivamente sui dettagli del corpo umano, richiedendo anni per essere create, attraverso l’utilizzo di silicone, fibra di vetro e acrilico e basandosi su modelli in argilla. Il suo lavoro, però, va ben oltre il realismo tecnico, offrendo una visione insieme estremamente verosimile e straniante della figura umana. Mueck è infatti straordinario nel creare una tensione tra l’opera e lo spettatore, catturando come una calamita la nostra attenzione e, allo stesso tempo, provocano in noi un senso di estraneità, quasi di spavento e di inquietudine (è, appunto, quel senso del “perturbante” di cui parlava Freud). 

Le sue opere incoraggiano infatti uno sguardo ravvicinato ai dettagli come macchie, capelli, vene ed espressioni dei volti, portandoti in un viaggio dentro il senso stesso del reale, del corpo, di noi stessi. Se ci si sofferma a guardarle per un tempo sufficientemente lungo e approfondito, si avverte una bellezza stranamente inquietante. Tuttavia, nonostante la loro incredibile somiglianza col reale, queste figure mantengono una strana distanza dal mondo: ed è forse proprio questo a riflettere, nel modo più inquietante e più profondo, il nostro stato esistenziale attuale. 

Photo Credits: Gautier Deblonde

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