Un po’ perché sono antipatica, un po’ perché sarebbe veramente un dato interessante da raccogliere, ho deciso di iniziare questo pezzo con una domanda che rivolgo a voi, lettore e lettori: sapete cos’è la sindrome premestruale disforica?
Da tutte le persone a cui ho rivolto tale quesito, fossero queste ricercatori universitari con PhD e nastrini d’oro, o Pussy Riot incazzate e combattive, ho ricevuto una e una sola risposta: NO. Ve lo dico io: il disturbo disforico premestruale (PMDD) è un disturbo depressivo caratterizzato da umore appunto depresso, irritabilità e labilità emotiva, che colpisce tra l’1,8% e il 5,8% delle donne in età fertile, influenzando significativamente la vita quotidiana. Studi recenti evidenziano un’elevata incidenza di pensieri autolesionistici e tentativi di suicidio tra le donne affette, con fattori di rischio come depressione, traumi e svantaggi sociali.
Come lo so? Perché a quasi 40 anni, di cui 30 vissuti con gli scompensi di cui sopra a cadenza regolare, ho scoperto di far parte di quella percentuale di donne che ne è affetta. Ora un po’ di sana retorica: com’è possibile che nessuno ne parli? Esattamente come è stato possibile, almeno fino a pochi anni fa, che nessuno parlasse di endometriosi, o di vulvodinia, ecc. Da piccola mi dicevano anche di non toccare le piante quando avevo le mestruazioni perché altrimenti sarebbero morte, ma questa è un’altra storia.
Informare, educare e rendere coscienti al livello istituzionale tramite la scuola e la sanità pubblica cittadini più o meno giovani, sarebbe normale, o quantomeno auspicabile ma la macchina dell’educazione sessuale fa fatica a trovare un posticino nell’agenda dei nostri politici. Allora, come sempre, ci pensa l’arte.
Vivo a Londra da quasi 10 anni, ma ci sono quartieri che ancora devo ben esplorare. Uno che è passato recentemente sotto il mio setaccio è il quartiere di Bethnal Green, situato nell’East End di Londra, noto per la sua povertà e le condizioni di vita precarie durante l’epoca vittoriana, e oggi risucchiato nel vortice di gentrificazione all’avocado. La verità è che non mi trovavo lì per caso. Nel corridoio stretto di Poyser Street infatti mi aspettava il Vagina Museum.
Fondato nel 2017 e cresciuto da pop-up itineranti al suo spazio permanente, il museo non è solo un archivio di anatomia ginecologica, ma una dichiarazione d’intenti: spostare il discorso dal vergognarsi del proprio corpo a celebrarlo con orgoglio, e a rendere a tutt* un po’ più noto il corpo delle donne e le innumerevoli battaglie che continua a combattere.
Nel mondo c’era già un Museo del Pene in Islanda, eppure nessun corrispettivo dedicato alle vagine. Perché? Questo interrogativo, carico di frustrazione (e un po’ di umorismo), ha spinto i founders a prendere l’iniziativa e portare avanti la missione di educare, abbattere stereotipi e promuovere un femminismo intersezionale, inclusivo e transpositivo.
Oltre a mostre permanenti che esplorano anatomia, salute e diversità delle vulve, il Vagina Museum si posiziona come piattaforma culturale e sociale. Qui si parla di diritti delle donne, comunità LGBTQIA+, lotta alla cisnormatività e rivendicazione della libertà del corpo. “Non c’è nulla di vergognoso nei nostri corpi”, recita il mantra del museo, sottolineando l’urgenza di un cambiamento nella nostra società.
Il museo si inserisce in un discorso più ampio sul concetto di biopolitica, ovvero il modo in cui il potere politico esercita controllo sui corpi e sulla vita delle persone. La storica stigmatizzazione dell’anatomia ginecologica e il silenzio sistemico attorno a salute, educazione e diritti riproduttivi sono esempi lampanti di come i corpi delle donne siano stati oggetto di regolamentazione, censura e controllo. Creare uno spazio come questo significa sfidare apertamente questi meccanismi di potere, sottraendo il corpo alla sfera del dominio politico per restituirlo a quella dell’autodeterminazione individuale e collettiva.
Un sogno di carne ed autocoscienza traslato, interiorizzato e restituito tramite l’arte e le sue varie declinazioni espressive. Non solo pareti di vagine in tutte le forme, grossi tampax dal sangue glitterato, e coppette mestruali ma anche la gioia di vedere un signore di settant’anni ricompattare la mappa anatomica formato puzzle dell’apparato genitale femminile in tutte le sue componenti, sotto lo sguardo attento e critico della moglie.
Tra le esposizioni attuali, “Museum of Mankind: From A to V” utilizza ironia e provocazione per smantellare secoli di misoginia e oppressione, mentre la collaborazione con Skaped, un’organizzazione artistico-sociale, ha dato vita a “Ode to Gy(n)a”, un murale che celebra la resilienza e il diritto all’autodeterminazione corporea.
Il Vagina Museum non è dunque solo un luogo fisico, ma un movimento culturale che rifiuta di lasciare il discorso sull’anatomia ginecologica confinato al silenzio o alle battute da bar. E in un’epoca in cui il corpo delle donne è ancora un campo di battaglia politico, questo spazio è un faro di consapevolezza e liberazione che dovrebbe ergersi in ogni città del mondo. Uno spazio da proteggere, far crescere e collettivizzare. Tra l’altro, i gadgets presenti nello shop sono magnifici, e io non ho potuto resistere nel comprare un poster con l’illustrazione di un grosso sedere budinoso che riporta in pregevoli caratteri dorati la frase “I love my Cellulite”.