Viva Thomas Jolly, distruttore e ricostruttore di miti, così antichi e così contemporanei

Il dibattito contemporaneo sembra diventato vagamente schizofrenico e, a tratti, spaventosamente violento, se non sempre nei fatti, certo nei modi e nei toni: e la questione dello “scandalo” suscitato dalla performance Festivity di Thomas Jolly per l’apertura dei giochi olimpici di Parigi, con un “baccanale” in stile queer con tanto di Dioniso in prima fila e di Apollo al centro del banchetto (qua il commento del nostro Emanuele Beluffi), interpretato dalla dj francese e attivista per i diritti della comunità Lgbtqia+ Barbara Butch, passata nel giro di pochi giorni dal dileggio sui social al cyberbullismo violento, lo dimostra ampiamente.

La performance incriminata

Ma, al di là degli eccessi e del teppismo informatico, ormai purtroppo all’ordine del giorno in molte situazioni analoghe, anche l’ondata di critiche superficiali, le derisioni, gli sfottò generalizzati, hanno rivelato l’aspetto tossico e la mancanza di razionalità che ha assurto il dibattito su questioni quali l’identità culturale, la tradizione religiosa, le questioni di genere. Sembra che una versione settaria, estremizzata, manichea, dopata di ciò che un tempo era la “normale”, seppur veemente, discussione circa i valori e le visioni del mondo, abbia ormai preso il sopravvento in qualsiasi campo, dall’arte allo sport all’editoria e in generale al cosiddetto “dibattito culturale”. Da una parte, ogni argomento un tempo considerato “alto” (l’arte, la cultura, la letteratura, il cinema) viene trattato con una superficialità e un grado di banalizzazione sempre più crescenti e disarmanti, come se quella che un tempo veniva considerata l’opinione pubblica fosse oggi diventata una massa di gente senza cervello, capace solo di cliccare su un tasto per mettere like e di guardare con aria ebete reel e stories di influencer e starlettes del web dalla durata effimera, da manipolare a piacimento, “tanto nessuno legge più”, “a nessuno frega più niente di niente”, “la gente vuole solo cazzate”, e altre simpatiche frasette divenute ormai mantra e assioma indiscutibili dell’editoria culturale. Dall’altra, ogni argomento, ogni scusa, ogni occasione sembrano diventate buone per “buttarla in politica”, in maniera dogmatica, con opinioni da impugnare come clave stile tifo da curva, senza se e senza ma, prive cioè di quelle sfumature, di quei ragionamenti ponderati e di distinguo che è ciò che ha caratterizzato, da che mondo e mondo, la buona dalla cattiva politica; che è poi anche questo un altro modo per buttare tutto in vacca, e tornare tutti contenti ed ebeti a guardare le nostre starlettes ed influencer che ci riempiono la testa di cazzate.

Thomas Jolly

Così, ad esempio, sulla performance di Thomas Jolly all’apertura dei giochi, come sull’identità di genere delle, o degli, atleti, si è scatenata da giorni, sui social, in Tv, su Internet, una bagarre degna di un circo equestre, senza che fosse in alcun modo possibile ragionare su ciò che più sarebbe giusto e lecito ragionare: era bella la performance? Era sensata? Aveva un suo perché, una sua storia, un suo background? Aveva ed ha, il suo autore, un pensiero, uno stile, una ricerca che giustifichino quello spettacolo?

Noi, dalle nostre colonne, abbiamo ben ricostruito, per mano del nostro collaboratore Alfonso Umali, la biografia artistica, di tutto rilievo e caratterizzata sempre da una forte carica di energia, di coraggio e di trasfigurazione delle iconografie tradizionali (da Shakespaeare a Seneca fino alla cultura cyberpunk) del regista della performance, Thomas Jolly, per spostare il piano del discorso dalla banalità delle critiche superficiali circa la “blasfemia” e l’ossessione “gender” dell’operazione, in direzione di una maggiore comprensione del suo substrato culturale e visivo. Per capirci: si trattava, ha spiegato Jolly, non di una rivisitazione dell’Ultima Cena di Leonardo (cosa che peraltro sarebbe sembrata strana, vista la presenza di un personaggio in primo piano che, se associato a Dioniso, assume un suo senso, se associato invece all’Ultima cena non avrebbe alcuna rispondenza iconografica e storica), ma dei baccanali greci, omaggio alla cultura olimpica, di matrice greca.

Era sensata e coerente dal punto di vista storico? Probabilmente no, ma, ad andare a vedere le passate esperienze del regista, si scopre appunto che il gioco del pastiche visivo, della contaminazione dei generi, del mescolamento e rimescolamento continuo dei riferimenti è appunto il suo pane quotidiano, quello che gli ha giustamente fatto guadagnare un Premio Molière per la miglior regia e un generale apprezzamento da tutto il mondo del teatro, non solo sperimentale, francese. Dunque, perché stupirsi se un regista per l’appunto sperimentale, che ama giocare coi generi, con le citazioni e con i riferimenti, ha deciso di mettere in scena una pièce in cui sembravano mescolarsi generi e storie culturali diverse, un approccio “fluido” all’estetica contemporanea, un trionfo kitsch sopra le righe?

Tommaso Labranca

Si poteva, si può dire non mi piace, certo, si può dire, come è stato detto, “è di cattivo gusto”, è kitsch: ma ora noi vorremmo chiedere, da che pulpito possono dirlo i soloni che oggi lo attaccano a testa bassa? Da quello di una televisione (in Italia come altrove) occupata non già da milizie di gendarmi dell’identità nazionale e della cultura occidentale, come fingono di volere i pasdaràn della riscossa di una nuova “egemomia culturale” di destra, ma da un esercito di fautori di spettacoli di basso e bassissimo livello, da centinaia di trasmissioni inguardabili, punte di diamante del trash più profondo, che farebbero saltare sulla sedia persino un Tommaso Labranca redivivo (se ancora c’è qualcuno che si ricorda chi fosse nel generale oblìo della memoria e del pensiero, andate a cercarvi quel testo straordinariamente lucido e profetico che era Andy Warhol era un coatto – vivere e capire il Trash, Castelvecchi  1994, che ha anticipato tutto il discorso sulla poubelle diffusa del contemporaneo avanzato), e poi spettacoli e programmi che ormai da tempo hanno fatto piazza pulita del buon gusto, dell’intelligenza, della sensibilità del pubblico inondando la tivù, i social, la rete con migliaia di immagini e di video idioti, di programmi per deficienti, di festival televisivi come apologia massima del trash oltre il trash, del cattivo gusto divenuto emblema del postcontemporaneo, della stupidità assurta a sistema.

Jean Clair

E, se la rete e quel che ormai resta della Tv non bastasse, da che pulpito può parlare l’arte contemporanea, che ha, anch’essa, da tempo tracimato ogni barriera del buon senso e del buon gusto, tra il trionfo dell’estetica del brutto quando non dell’ampolloso, del kitsch elevato a massimo sistema, dei due poli opposti della medaglia, entrambi debitori, non sappiamo quanto consapevoli, all’estetica trash: la deriva “scatologica” da una parte, quella denunciata a suo tempo da Jean Clair nel suo indimenticabile De Immundo, quell’uscita definitiva non solo da qualsiasi “bello”, ma anche dal teologico, dal sacro, per arrivare al solo “culto dell’escrementizio”, all’estetica del calzino sporco, come l’ha definita Angelo Crespi, agli “excrecta” retti a sistema, come feticcio non solo di una modernità, ma di un’umanità ormai in agonia. Inutile fare degli esempi, ce ne sono troppi, ogni mostra d’arte, ogni fiera d’arte contemporanea traboccano di reliquie, immagini, feticci di un mondo che sembra aver perso qualunque senso dell’estetica in favore di un tragico e desolante sacrificio collettivo, che abbia però perso ogni forma di ritualità. Dall’altra, siamo, anche nell’arte, al trionfo della superficialità retta a sistema imperante: ironie, parodie, ridicolizzazioni, Topolino come Cristo come la Madonna come Berlusconi come la cacca come i Simpson come Warhol come Raffaello, tutto tritato in un grande frullatore kitsch senza profondità né senso (se non, ogni tanto, qua e là, uno slogan pacifista o ambientalista a mostrare che siamo tutti buoni e impegnati e pacifisti ed ecologisti…).

Roland Barthes

E allora? Allora, ragazzi, viva Thomas Jolly, il martire odierno preso a sassate da destra come da sinistra, che ha preso in giro tutti, forse è vero, ma almeno ha studiato, conosce l’alfabeto, il linguaggio, Seneca, Shackespeare, e probabilmente ha letto molto, molto, di Mircea Eliade, di Kerényi, delle teorie e storie dei miti, e di Roland Barthes. “Per rinnovare una drammaturgia”, scriveva Roland Barthes in Miti d’oggi, “non è sufficiente rinnovare le scene o cambiare gli attori. Bisogna avere il coraggio di distruggere”. Jolly l’ha fatto, e ora è diventato il bersaglio grosso della destra, dei cattolici, dei moralisti un tanto al chilo, degli odiatori e delle tricoteuses in servizio permamente di internet. Lunga vita a lui e al suo coraggio.

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