La Turandot alla Scala, potente sì, ma troppo ridondante

Teatro alla Scala Milano, 25 giugno – 15 luglio 2024

Secondo titolo pucciniano nella stagione del centenario, Turandot* va in scena nel nuovo allestimento firmato da Davide Livermore, che ha realizzato alla Scala numerosi spettacoli di successo negli ultimi anni, incluse quattro inaugurazioni di stagione. Nelle ultime riprese dell’opera, lasciata incompiuta da Puccini, Riccardo Chailly aveva proposto per la prima volta alla Scala il finale composto da Luciano Berio; in questa nuova produzione sarà invece eseguito quello firmato da Franco Alfano.

La storia della principessa cinese Turandot, algida e crudele, e di Calaf, che desidera sposarla ed è pronto a sacrificare la sua vita, e non solo la sua*, per ottenere la sua mano non è ambientata nella Cina delle favole, bensì in uno spazio tra il moderno e l’antico, un po’ underground e un po’ manga, come sempre piace a Davide Livermore, che cura la regia dello spettacolo. 

I toni di scena sono cupi, ravvivati dal cremisi di alcune installazioni e dalla vivacità dei costumi dei personaggi “reali”, l’imperatore, Ping Pang e Pong e, naturalmente, Turandot. Al centro del palcoscenico campeggia una grande sfera su cui sono proiettate le grafiche di D-Wok, che aggiungono movimento e profondità ai movimenti del cast, ma che a volte risultano poco utili. Ci ritorneremo. 

La qualità musicale e vocale di questa “Turandot” è sicuramente alta. Gli interpreti di Calaf e Turandot, Yusif Eyvazov e Anna Netrebko, una coppia anche nella vita, hanno perso lo smalto della giovenizze, ma con grande esperienza tramutano le piccole debolezze in marchi di fabbrica e così Eyvazov diventa sempre più accorato nel suo canto (e il pubblico apprezza il suo All’alba vincerò) e la Netrebko, dai bassi sempre più intubati, fa svettare alti e perfetti gli acuti.

Non delude Rosa Feola nei panni importantissimi di Liù, la serva che, con il suo sacrificio d’amore, riuscirà a sciogliere il cuore gelido della principessa. La sua resa del personaggio è dolce e nel contempo intensa, con sfumature apprezzabili e un fraseggio perfetto. Da promuovere anche l’Altoum di Raul Gimènez (la barba bianca da maestro di Kung Fu non è d’altronde colpa sua), il Timur nobile e composto di Vitalij Kowaljow e le tre maschere dei consiglieri di corte, interpretate con qualche difetto di pronuncia, ma ottima sincronia da Sung-Hwan Damien Park, Chuan Wang e Jinxu Xiahou.

Coro della Scala impeccabile e sontuoso come sempre: una garanzia.

La direzione di Michele Gamba, classe 1983, è potente, non c’è altro modo per descriverla, ma sacrifica i dettagli e alcune sfumature pucciniane, finendo in molti casi per sovrastare la voce degli interpreti in scena. C’è molto pathos nella musica, ma poco controllo.

Tornando alle scene e alla regia, Davide Livermore non rinuncia al suo stile e propone una sua visione di “Turandot”, che nel programma di scena lui stesso descrive così: “un universo inventato, ma con alcuni tratti riconoscibili: stampe cinesi e altri elementi che richiamano una modernità asiatica, volendo però al contempo che lo spettatore colga ‘qualcosa di sospeso, di spiritico, di fantasmagorico” .

Spesso accade con il regista torinese che il troppo “stroppia”, ma in questo caso lo spettacolo visivo è bello, anche se c’è ridondanza nei particolari in scena e in quelli suggeriti dalle grafiche pur belle di D-wok, che sicuramente colpiscono l’occhio dei turisti e di chi si approccia per la prima volta all’opera lirica, ma che non aggiungono nulla alla comprensione dell’opera – muore qualcuno sul palco, qualcosa si tinge di rosso, Liù canta Tu che di gel sei cinta e nevica… -, anzi.

Ridondante è anche la commemorazione della morte di Puccini, che ha lasciato la “Turandot” incompiuta prima di morire. Dopo la morte di Liù, esattamente nel punto in cui il compositore toscano ha scritto l’ultima nota, lo spettacolo si interrompe per osservare un minuto di silenzio che vorrebbe ricordare la celebre prima del 1926 con la direzione di Toscanini, ma finisce per essere un po’ ridicolo, come una signora troppo truccata per nascondere i segni del volto.

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