Un mondo in rosa per celebrare il Pop diffuso
Gianluca Marziani | Critico d’arte
Possiamo inserirlo al primo posto nella classifica dei film che definiscono le radici, gli orientamenti, le derive e le evoluzioni al presente di una parola che ha cambiato il Novecento: POP.
Questo splendido oggetto di marketing cinematografico disegna un’operazione d’intelligenza sopraffina, basata sul circuito virtuoso tra la sua vita circolare – il perfetto case history di marketing totale e globale – e la sua vita specchiante – la capacità di creare circuiti d’empatia con spettatori di ogni età, estrazione e cultura –, trasformando un lungometraggio in un manuale acrilico per riflettere sulle merci, sui feticismi, sui culti ma anche sulle piramidi sociali, sulle identità di gender, sui cortocircuiti tra maschile e femminile.
Così come Banksy ha sdoganato la forma del cuore nell’arte visiva (l’oggetto più raro da ritrovare tra i grandi artisti), ecco che Barbie sdogana la natura del rosa, soffocando machismi e femminismi sotto la pasta flat di un colore diventato mondo.
Un mondo in cui poter dire: “Il rosa è uguale per tutti”.
Femminismo in salsa pop con sbavatura nel finale
Chiara Canali – Critica d’arte
Il film Barbie, forse proprio grazie alla potente regia di Greta Gerwig, si configura come una brillante esaltazione dell’empowerment femminile in una Barbieland esagerata, tutta rosa e in salsa Pop.
Un mondo fantastico che però risulta in qualche misura plasticoso ed escludente verso le diversità, come nel caso di Barbie incinta e Barbie stramba.
In questo universo basato sul matriarcato la bambola, in un ideale parallelo con le bambine che vi giocano, può essere tutto quello che vuole – presidentessa, scrittrice, artista, amministratrice delegata, pilota, medico, pompiere, giudice della Corte suprema, senza perdere fascino, seduzione e giovinezza – con piedi opportunamente curvi che non soffrono i tacchi e assenza di cellulite nelle gambe.
D’altro canto l’uomo, impersonato dalla straordinaria performance di Ryan Gosling nei panni di Ken, è ridotto allo stereotipo di un macho fine a sé stesso, che vive in funzione dell’attenzione delle Barbie ma senza realmente sapere il perché, in definitiva vuoto di prospettive e di velleità proprie.
Questo primo atto femminista in maniera parossistica, si sgretola con le inquietudini della Barbie “stereotipo” protagonista, costretta a varcare la soglia del mondo reale nel più classico dei viaggi dell’eroe.
Il mondo reale però è diverso da quello che si immagina e dall’inevitabile confronto-scontro di questi due mondi emerge la crescita di consapevolezza di Barbie stereotipo chiamata a salvare Barbieland dal sopraggiunto “patriarcato”.
Nel mezzo ci sono critiche al capitalismo e satire sul mondo moderno che ti inquadra in una routine senza sogni, analisi sulla diversità esistenziale delle nuove generazioni e monologhi accorati sulla condizione della donna moderna.
Ed è qui che sbanda nel finale la trama, perdendo il focus della storia e accompagnando troppo velocemente ad un finale che ancora una volta strizza l’occhio al femminismo.
In definitiva Barbie è un affresco visivamente appagante che purtroppo promette e mantiene nei primi due atti prima di smorzarsi quasi per consunzione nell’ultimo, chiudendo velocemente e semplicisticamente quanto seminato in precedenza.
Chiara Canali
Un concentrato di cultura Pop tra citazioni e strizzate d’occhio alla filosofia e alla politica
Nicola Di Caprio | Artista
Intorno agli 11 anni un mio amichetto, che c’aveva il papà ufficiale alla base NATO di Bagnoli, mi regalò il suo Big Jim difettoso che non pompava tutti e due i bicipiti. Big Jim è l’opposto di Ken: il primo palestrato e macho, il secondo asessuato e cavalier servente di Barbie. Questo è stato il solo approccio al mondo Mattel. Neanche mia sorella minore ha mai avuto una Barbie; con una famiglia spartana e due fratelli maggiori pratici e senza fronzoli, mai lei avrebbe preso quella piega svenevole.
Dal film Barbie capisco che sono state prodotte tante bambole anche etniche, incinte e di taglia forte mentre quelle meno gradite alle bambine, venivano subito tolte dalla produzione. La “rosa” Barbieland vorrebbe rappresentare una società matriarcale, autosufficiente e virtuosa con le Barbie di successo e grande autostima, una su tutte quella afroamericana Presidente dei Pink States mentre ai vari Ken è riservato il ruolo di adoranti comparse e tipi da spiaggia che manco si sa dove abitino.
Il film, sottilmente politico, è un concentrato di cultura pop, nella sua accezione più alta, con citazioni cinefile (Matrix, Blade Runner, 2001 Odissea nello Spazio, Orgoglio e Pregiudizio) e che astutamente cavalca il tema della odierna fallimentare società patriarcale, ben illustrata dai dirigenti della Mattel, patetici e pasticcioni, con a capo l’assurdo Presidente che siede al tavolo agitando delle bacchette di batteria (materia di comicità e che l’attore Will Ferrell, già noto per la gag “More Cowbell”, è il sosia di Chad Smith batterista dei Red Hot Chili Peppers, sarà questo il motivo?).
Nella trama si aggiunge, poi, un po’ di filosofia esistenziale che si somma al lacerante rapporto tra vita reale e vita ideale, domande sulla morte, dell’amore non corrisposto, ecc. Insomma, non manca niente nelle rizomatiche penne degli sceneggiatori e della regista: arte, musica, filosofia, cinema, amore, psicanalisi e… Pinocchio. Si perché alla fine, analogamente al classico di Collodi, la plastica si trasforma in carne per uscire dall’eterna adolescenza e vivere una vita reale di “piedi piatti”, di sangue e sudore.
PS: Da notare che nella scena della Barbie Stereotipo che fugge dal palazzo Mattel, ci mostra anche un quadro d’arte moderna-contemporanea in stile Günther Förg anni ’90.
Se anche Barbie prende coscienza
Elisabetta Roncati | Art Sharer
Chissà cosa potrebbe pensare la nostra Ministra per la famiglia, la natalità e le pari opportunità se vedesse che nei primi minuti della pellicola, che sta sbancando ai botteghini di mezzo mondo, delle dolcissime bambine replicano la scena madre di 2001 Odissea nello spazio: prendono a calci bambolotti ed altri oggetti da “mammine” dopo aver scoperto che Barbie può ricoprire mille altri ruoli oltre ad essere madre. Almeno però non brindano alla neonata presa di coscienza sorseggiando uno spritz, per ovvi limiti d’età. Il film di Greta Gerwig è intriso di citazioni famose che partono dal capolavoro di Kubrik per arrivare alla serie di Matrix. Non mi stupisce nemmeno il fatto che, tra il serio e la fake news, circolino in rete notizie su coppie scoppiate post visione del film e uomini indignati dalla ridicolizzazione del maschio etero cisgender. Il ruolo di Ken, in tutta la pellicola, è quello di un insicuro che vive all’ombra della compagna. O meglio, dà un senso alla sua esistenza solo con la prevaricazione della figura femminile e con l’esibizione dei classici simboli del potere maschile (nella seconda parte delle quasi due ore di girato).
Comunque, non penso che ciò basti a fare di Barbie un’apologia del femminismo: sicuramente però la sua visione può diventare una sorta di “esperienza” per le ragazze che, soprattutto in giovane età, convivono al fianco di un “Ken”. Anche io, seppur da piccola non abbia mai posseduto una Barbie – erano “diseducative” secondo mia madre –, e nell’adolescenza abbia desiderato essere una Barbie, ho ridacchiato sotto i baffi pensando ad una tipologia di uomini con cui mi sono accompagnata anni or sono.
Detto ciò, anche la protagonista del film non brilla di acume e, in tutta la sua durata, non vi ho rintracciato né l’esaltazione della comunità LGBTQIA+, né la glorificazione dello stile di vita occidentale di cui alcune nazioni lo hanno accusato. I rimandi ci sono, la lettura tra le righe delle battute non sfugge ad un pubblico attento, di età più avanzata rispetto al target di riferimento, ma la regista ha mantenuto una sorta di “sacro” equilibrio tra il detto e il non detto.
In quanto a difesa dei diritti di alcune minoranze si poteva fare molto di più, ma del resto il focus è il rapporto uomo-donna e la tematica delle pari opportunità. Che si ritrova nella conclusione finale, in uno spezzone, a mio giudizio, troppo lungo e stucchevole: nessuno deve prevaricare su nessuno. In primis siamo esseri umani, senza per forza caratterizzarci per il sesso biologico, con i nostri pregi e difetti caratteriali. Tuttə insieme ci troviamo ad affrontare il lungo cammino dell’esistenza tra mille difficoltà, insicurezze, paure. Ed è stramaledettamente perfetto così.
