Il cinema di Pablo Larrain è un cervello dal metabolismo onirico che riscrive alcune biografie della corruzione/correzione morale, del ribaltamento junghiano verso un cielo nero di metafore che irrompono dentro la Storia e creano archetipi del terrore, dello spavento a regime biblico, della lotta atavica col muscolo anabolizzato del Male.
El Conde risponde al nome di Augusto Pinochet, qui nel suo esilio versione ritiro familiare in una landa dove la casa western style diventa un organismo digerente che espelle le nature umane ma digerisce e nasconde i beni patrimoniali del cuore di tenebra. Pinochet beve sangue e vola come un Batman depravato in cerca colli da mordere per rigenerare la sua eterna natura satanica.
È un vampiro vecchio e rincoglionito, circondato da una moglie scivolosa come bava di lumaca e da cinque figli che incarnano l’essenza delle umane idiozie, del materialismo bieco, delle bassezze senza morale. Arriva anche una suora che vorrebbe estirpare Satana dal dittatore ma finirà con la testa tagliata in stile rivoluzione francese… finché scopriamo che la Grande Madre di Pinochet, secondo Larrain, risponde al nome di Lady Margaret Thatcher, regina del draculismo globale contro ogni forma di comunismo sulla Terra. El Conde ha quel potere d’attrazione che esercita sul pubblico gente alla Manson o Dahmer, sorta di distillato in purezza del male assoluto in una metafisica della decadenza collettiva. Un film dal bianconero espressivo alla Murnau, cucito tra variabili grigie come piaceva a Lang, girato con il solito manico geniale del cileno, scritto con ricchezze ironiche e citazioni ben integrate al rito narrativo della disgregazione etica. Un film che stende i suoi artigli sulla memoria a rilascio prolungato, scivolando nei nostri processi visivi che si trasformano in un contenuto da elaborare, nel tempo lungo dell’esperienza e del confronto, quando capisci che su alcune figure non potrà esistere alcuna redenzione. Mai.