Se reciti Shakespeare, puoi recitare qualsiasi cosa. Non è una frase qualsiasi ma l’esergo emotivo, e creativo, di Dogman, nuovo lavoro di Luc Besson che torna al cinema, al suo cinema, con un gusto anni ’90 e sferzate di sangue rappreso e sparatorie vecchio stile. Chi è cresciuto con Nikita o Leon può trovare dei punti di congiunzione tra queste pellicole e Dogman che hanno in comune non solo un’estetica precisa, torna sempre il cinema du look questa volta senza dispregiativi, ma anche un focus su personaggi emarginati e alienati, storie d’amore impossibili, violenza domestica e il completo fallimento dello stato sociale.
È con queste premesse che ci addentriamo nella vita di questo dogman, che combatte “i dardi della sorte avversa”, col il suo abito drag, stile Marilyn Monroe, sporco di sangue e con il camion pieno di cani. Douglas (Caleb Landry Jones) viene fermato dalla polizia. È scosso, ferito e solo. In custodia cautelare, racconta alla psichiatra Evelyn (Jojo T. Gibbs) com’è finito nella situazione in cui è stato trovato. Più ne scopre, più Evelyn è attratta da Doug, che è cresciuto in un ambiente familiare estremamente disfunzionale, abusato da suo padre, che torturava i cani usati per i combattimenti.
Trasferito tra case famiglia, trova una sorta di salvezza grazie alla gentilezza di Salma (Grace Palma), e alla recitazione. Da adulto, i servizi sociali gli trovano un impiego in un rifugio per cani nel New Jersey, ma quando lo stato chiude la struttura, Doug scappa con la sua nuova famiglia in una scuola abbandonata, diventando noto nel quartiere come Dogman, il cui potere sui suoi pelosi seguaci gli vale una reputazione. Per sopravvivere li ha addestrati a svaligiare i cittadini benestanti per una “equa” ridistribuzione della ricchezza.
Questo Arthur Fleck, maltrattato, tormentato e abbandonato, è un anti-eroe che abita la sua Gotham, una città che lo respinge, lo rifiuta, lo relega ai margini; ha già il trucco sul viso, ma non è così solo come Joaquin Phoenix in Joker. Forse è proprio questa circostanza a impedirgli di trasformarsi in un vero public enemy, e incitare il popolo alla rivoluzione. Douglas è circondato dai suoi fedeli quadrupedi di tutte le razze, e ha un corpo volto alla recitazione, con la passione per Shakespeare, e per questo ha la possibilità, come Arthur Fleck, di essere sempre qualcun altro.
Un vigilantes queer che diventa autore di sé, per cui la recitazione diventa identità, la performance diventa il superamento del trauma e dell’emarginazione, e la famiglia è lo spazio in cui la biografia vince sulla biologia. La sua accettazione devota, e cristiana, di una vita triste lo rende il più grande pagliaccio di Besson, uno che non si abbandona mai all’autocommiserazione, ma che alla fine cerca il patetico, e anche la fede, per sigillare il suo destino.
Besson distilla una favola che deraglia nell’irreale, che può essere considerata come una fiaba urbana tra Oliver Twist e La carica del 101, pur restando, dal punto di vista registico, un film d’azione da manuale, tensivo, sporco, frenetico. In alcuni momenti funziona davvero bene, alcuni picchi drammaturgici sono particolarmente efficaci. In altri momenti invece appare inappropriato e molte sottotrame sembrano finire in un vortice di non sense. A ciò si aggiunge che a parte il protagonista, tutte le altre figure sono poco solide, senza una vera caratterizzazione, spesso sembrano addirittura un fastidioso contorno.
Eppure Dogman resta la storia di un ladro dal cuore d’oro, di un uomo solo contro tutti, il re dei randagi, un soggetto che sembra uscito dalla penna di Dickens, che a tratti sconfina nel derivativo, che però non resta affrancato a un solo genere ma si misura con una contaminazione, un’accumulazione continua (fumetto, noir, azione, thriller, musical) un pastiche di generi, un’inquietudine stilistica la cui tenuta è sempre in bilico, sempre sulla soglia tra tragedia e farsa.