Luca Beatrice, le vite degli artisti come racconto provinciale dell’arte italiana

È degno ereditiere il titolo. E lo è anche l’autore, Perché no? Le vite di Luca Beatrice hanno corpo enciclopedico, proprio come lo furono Le Vite del suo predecessore, il Giovanbattista Vasari, nientedimeno. Stesso impegno compilativo, stessa metodica analitica, nella specola personalistica (anche quella è fededegna del modello originale). 

Medesima è pure, soprattutto, la declinazione critica: Vasari fu toscanocentrico, Beatrice fa della Provincia italiana il suo centro, che poi, per riduzione chimico termica, come nelle preparazioni alimentari, la Provincia si consuma quasi tutta a Torino, al massimo nelle colline limitrofe, al limite fino alle propaggini circonvicine dello stretto, ma densamente tellurico territorio sabaudo. Ciò, nonostante le esperienze estere dell’autore, che, stendhalianamente, ha vissuto e operato a Palermo, Roma e Milano (non a Napoli). 

Luca Beatrice

Ma a Torino, come molti dei suoi eroi, Beatrice torna e si ritira per scrivere le sue memorie sull’arte italiana dell’ultimo mezzo secolo. Torino e la sua Provincia diventano, con suadente convinzione, metafora storico critica di tutta la Provincia italica, insomma. 

Ma prima di tirare le somme, addentriamoci nel dedalo vorticoso, risucchio irresistibile per qualunque lettore, anche non specialista, della scrittura memoriale post vasariana, post postmoderna e financo post millenarista de Le vite – Un racconto provinciale dell’arte italiana (Luca Beatrice, Marsilio, 2023, pagg. 308, euro 19,00).

È già nelle librerie da settimane, per i tipi della casa editrice veneta, collana Nodi, l’eccellentissimo volume di un critico che ha militato nella vasta Provincia italiana scovando storie di vite di artisti – delle loro vite prima ancora che delle loro opere -, e della vita che lui medesimo ha collezionato per sé stesso, frequentando loro.

Naturalmente si trovano indicazioni pertinenti all’arte, e anzi, diffuse nozioni afferenti agli ambienti dell’arte che hanno abitato gli artisti del primo scorcio di secolo nuovo (ovvero di nuovo millennio) e dell’ultimo scampolo di millennio vecchio, nella dimensione dell’ultimo quarto secolare. Ma ciò che più si apprezza e si gode, indubbiamente, è la cronaca vissuta degli incontri con l’arte e con i suoi protagonisti, tutti scovati – o specificamente additati come appartenenti – a qualche conca altrimenti introvabile della Provincia italiana. 

È questo, infatti, il senso che guida la scrittura e la lettura delle Vite: la vita dell’arte italiana, e la sua “vitalità”, germinano e sgorgano in anfratti remoti e dislocati del territorio, lontano dalle capitali, anche se ivi si esprimono confluendovi, inesorabilmente attratti dal mercato e dal “sistema” dell’arte, che per la forza delle cose trova luogo elettivo di produzione e consacrazione solo nei grandi centri. 

Beatrice disegna una mappa ragionata, circostanziata e fedele di tutti i momenti migliori che sono toccati alle varie capitali (e primariamente a lui medesimo, che si è trovato al posto giusto nel momento giuto), se ne trova ampio retaggio e dovizioso resoconto. Tantopiù che l’approccio dell’autore al testo e al lettore è rigorosamente “giornalistico”, dunque infallibilmente leggibile dalla prima riga all’ultima. E le righe del libro sono almeno un paio di decine di migliaia. Come le leghe di Jules Verne, ma tutte currenti calamo, filanti come una poppa al vento, godute e gaudenti come i delfini che saltano ai bordi della prora.

Inutile, e parimenti riduttivo, probabilmente, sarebbe compulsare dall’elenco borgesiano dei nomi qualche esempio, tali e tanti sono (anche solo considerando le mere citazioni), dunque saremmo tentati dal non farlo. Ma solo, appunto, per dare conto dell’impressione di infinità, quasi, dell’impegno evocativo dei buoni esempi dell’arte fertilizzati dalla fertilissima Provincia italiana che il critico cronista desume dai suoi taccuini. 

Tra le righe di quei calepini ci sono proprio tutti: non solo gli artisti, anche i galleristi, i critici, i mercanti, gli editori d’arte, i collezionisti, tutti coloro che hanno vitalizzato e rivitalizzano l’enorme agro cantonale della tavolozza peninsulare, tutti provinciali capitali mondiali, per dir così. 

Ma, bene, volete i nomi? Allora ne faremo una dozzina, a detrimento degli altri cento e non più cento che Beatrice, come Dante, non già più come messer Vasari, incontra nella sua ascesa all’empireo dell’arte nostrana dei nostri tempi, tre per ogni quaterna in cui si divide il libro. 

Prima della rivoluzione (bertoluccianiamente parlando): Giulio Turcato, l’astrattista borghese che sapeva solo dire: “E’ stato molto importante andare sulla luna”. Mimmo Rotella, che ha inventato la street art credendosi un nouveau realiste. Mario Schifano, il genio maledetto pop rock, che ha preso tutto e non ha lasciato eredi.

Emilio Isgrò photo by Roberto Serra Iguana PressGetty Images

Dalla guerriglia al museo (O, degli apocalittici che poi si integrano): Michelangelo Pistoletto, Il Grande Vecchio dell’Arte Povera che ci rimane male se danno fuoco ai suoi venerei stracci. Emilio Isgrò, l’artista con la vena della didattica che cancella il testo, ma per insegnare a leggere oltre. Pino Pinelli, l’astrattista volumetrico che spiega ogni volta con parole nuove la stessa opera.

Formidabili quegli anni (quelli dell’autore, s’intende): Giancarlo Politi, l’editore che ha fatto della provincia il suo regno planetario. Luigi Mainolfi, il primo vero amico del critico nell’avventuroso mondo dell’arte. Tutta la Transavanguardia, i Magnifici Cinque, creature eccelse dell’unico critico eccelso, e rasoterra a un tempo, della contemporaneità: Achille Bonito Oliva.

La mia generazione e oltre (Maturità e autobiografiche rassegnazioni): Vittorio Sgarbi, il critico onnisciente con cui mai al mondo conviene concionare insieme pubblicamente: lui la sa più lunga. La scena milanese anni ’90, che tutta la provincia dell’arte temeva e riveriva, ma dove sono finiti, poi, molti di quei carneadi? Vanessa Beecroft, sacerdotessa anoressica della provincia ligure che ha ingozzato di performance spiritate il mondo intero. 

E arrivati come siamo a questo punto, di nomi ne facciamo pure altri due, ma non siano presi come preferibili, bensì come esemplari del metodo Beatrice: da Valeriano Trubbiani, il più ignoto dei carneadi dell’arte italiana, a Maurizio Cattelan, il Biscione tentacolare e onnipotente, l’unica differenza che intercorre è un difetto di comunicazione. Per il resto, entrambi si stagliano, almeno ex aequo, alla stessa altezza del podio che merita il valore condiviso e patriottico delle molte, identiche patrie dell’arte che compongono il paesaggio dell’arte provinciale italiana.

È bravo, sia detto infine, Beatrice, a restare in equilibrio statico tra l’eterodossia anarchico libertaria che rievoca nostalgicamente, in molti tratti della sua fatica letteraria (apprezziamo con gioia di lettura l’autenticità dei sentimenti che muovono le fibre del suo racconto), e l’ortodossia ben ragionata del dover essere, poiché a tratti l’autore pare indulgere a una sorta di ineludibile – e tuttavia contenuto e ben governato – conformismo. 

Ma chi lo può eludere, senza minimamente mettere in conto di dovere necessariamente essere escluso dalla benché minima possibilità di conseguire il cursus honorum di Luca Beatrice? Ben meritato, sia detto pure.

Pare corretto insomma lasciare a ciascun lettore delle Vite il gusto di ravvisare una parte di sé stesso nella narrazione, perché nelle Vite degli artisti dell’ultimo mezzo secolo c’è soprattutto il racconto della vita stessa di colui che ha raccolto e testimoniato le loro esistenze. 

Un medium, in sostanza, Luca Beatrice, di gran vaglia. Uno specchio alchemico per tutti coloro che anelano allo spirito dell’arte e del tempo in cui essa si manifesta. Appieno erede della Gnosi antica della profonda Provincia sabauda. Ma valevole per tutta la Provincia dell’arte che merita una epifania. 

L’arte italiana non è un vizio capitale. È una virtù provinciale. Descritta mirabilmente, da un punto di vista strettamente personale.

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