Giovanni Frangi è un vulcano che ribolle perennemente: è costantemente e incessantemente dedito alla “creazione artistica”, che come ricorda lo stesso artista diviene una necessità fisica, intima e profonda, quasi terapeutica.
Tutto ha inizio anche grazie ai genitori, appassionati d’arte, ma soprattutto ad un certo zio, che risponde al nome di Giovanni Testori: intellettuale straordinario, che ha influito sulla formazione artistica e la crescita culturale di un giovane Giovanni Frangi.
La pittura e principalmente il colore sono elementi determinanti nell’espressività di Frangi, la cui ricerca nasce dal quotidiano, soprattutto dalla natura, elementi che successivamente vengono trasfigurati, spesso per sottrazione, in una continua ricerca di “evoluzione” stilistica e concettuale.
Tra i numerosi progetti nei quali sei spesso impegnato, da poco hai realizzato “Urpflanze”, presso la Villa Reale di Monza, esattamente in quello che era l’appartamento dell’Imperatore di Germania. Un progetto molto interessante, sia per la tematica del bosco, della natura alla quale anche il sottoscritto è molto sensibile, sia per la tua interpretazione e dialogo con questi bellissimi spazi, ma a mio avviso anche complessi con i quali interagire. Ci spieghi cosa hai realizzato?
“Urpflanze” nasce in relazione a un nuovo allestimento della Villa Reale di Monza, in cui Cristina Mazzantini, la curatrice dell’iniziativa, mi ha chiesto di pensare un progetto per una stanza del primo piano che si affaccia sul magnifico Parco. Con Cristina Mazzantini avevamo già lavorato qualche anno fa per Quirinale Contemporaneo in cui due miei lavori sono stati collocati nella sala d’aspetto del Presidente Mattarella. In questo caso l’operazione era più complessa. Lei aveva visto una mia installazione di qualche anno fa intitolata Dauntsey Park, dove per un mio amico che abita in una residenza splendida nella campagna inglese, vicino a Chippeneim, avevo realizzato sette lavori che rappresentavano una foresta che andavano a incastrarsi esattamente in sette cornici preesistenti, i cui i quadri erano stati venduti dai precedenti proprietari. In quel caso la foresta dipinta era quella che si vedeva nelle grandi finestre di fronte ai miei quadri. Era una specie di Constable in carne e ossa. A Monza ho lavorato su qualcosa di analogo in una stanza con delle cornici vuote, anche lì c’è un fiume dove gli alberi si riflettono, ma le cornici che contengono i lavori sono disposte su tutti i quattro lati dell’ambiente, ognuna con misure differenti, e tutte alte tre metri e sessanta centimetri, per cui la natura ambientale del lavoro era rafforzata da questo senso circolare dell’immagine. Ho lavorato nel mio studio di Milano poi una volta collocati i quadri ho fatto solo qualche piccolo aggiustamento. Per di più qua e là ci sono anche degli specchi dove tutto si riflette e acquista una prospettiva diversa.
Possiamo quindi asserire che la natura, il mondo naturale è il filo conduttore del tuo lavoro? In origine più figurativa e poi nel prosieguo della tua rappresentazione si è fatta “più libera”, divenendo informale, quasi astratta.
Il mio lavoro si è via via trasformato. Ho pensato di restringere il mio campo d’azione. E la natura in senso lato è diventata il motivo della mia indagine. Se all’inizio ero affascinato dalla materia nella sua possibilità espressiva poi lentamente ho sentito l’esigenza di alleggerirmi da quell’ingombro. Ho scoperto quanto la velocità sia una qualità per me a volte necessaria anche se difficile da imparare.
Tuttavia nel tuo percorso non è, o perlomeno non è stata protagonista, solo la natura intesa come ordine naturale: alberi, fiori, boschi ecc., ma anche il paesaggio interpretato anche come scenario urbano: penso alla serie delle Tangenziali e agi svincoli delle autostrade. Da dove nasce l’interesse per questi temi?
Ho trovato sempre nuovi interessi nell’osservazione del mondo naturale. C’è sempre qualcosa di nuovo. E un lavoro ne chiama un altro. Cosi come una catena. E io sono lì nel mezzo e non mollo la preda. Mi guardo intorno.
Spesso nel procedimento creativo e quindi espositivo finalizzato ad una tua mostra, non pensi alla singola opera, ma procedi partendo “dall’insieme”, da un concetto progettuale unitario complessivo, d’insieme. Potremmo dire che lavori per cicli. Perché prediligi questo approccio?
Tutto mi va sempre stretto. Vorrei scappare fuori. Non mi sento mai abbastanza soddisfatto da un lavoro e per questo che ne voglio fare un secondo e poi un terzo. E cosi via. Lo spazio non mi basta mai. E alla fine i quadri tra di loro si rafforzano. Anche per questa ragione ho sempre cercato un dialogo con lo spazio, perché i quadri cambiano terribilmente a secondo di come vengono collocati. Quando funziona questo meccanismo è il massimo, ma non è sempre una sfida facile.
La carta è un elemento se non sbaglio a te molto caro, che spesso hai utilizzato per la realizzazione delle tue opere: penso ai disegni o alle incisioni al carborundum o monotipi presenti alla grande mostra personale “Show Boat. Andata e ritorno”, della scorsa primavera presso il Castello Sforzesco di Milano. Cosa ti offre o cosa ti consente di fare la carta, che altri supporti non ti permettono?
In realtà se fosse per me farei solo lavori su carta coi pigmenti e i pastelli a olio e le matite in bianco e nero. La carta comunque ti da una possibilità in più. Io uso sempre una carta tedesca che si chiama Hahnemuhle che mi aveva consigliato un mio amico, Beppe Basile, e non lo ringrazierò mai abbastanza per questo. D’altronde io imparo ancora guardando i disegni di Degas.
All’interno del tuo studio, che io ho visitato diverse volte e che mi affascina sempre molto, in cui tra l’altro forse non a caso c’è un rapporto significativo con la natura esterna, è presente un vero e proprio archivio fotografico. Sono tutte fotografie da te realizzate, che hanno come soggetti la natura e il paesaggio. Questo perché nel tuo percorso creativo, il primo step è solitamente quello di individuare un soggetto reale e quindi immortalarlo fotograficamente, solo in un secondo momento interviene la pittura. Perché la necessità di questo passaggio fotografico?
Sono un pittore realista anche quando dipingo dei quadri astratti. Il legame con l’immagine è sempre per me fondamentale. Nelle mie fotografie c’è già il senso del quadro nelle sue proporzioni. Come diceva mia sorella, che ama come me la fotografia, l’importanza di una foto non sta nel centro ma nei bordi dell’immagine. Io faccio sempre così. Quando faccio una foto guardo ai bordi. I bordi sono il trucco. Nei bordi c’è già la costruzione di un lavoro. Perché in realtà tutti i quadri sono astratti e solo una questione di rapporti tra pieno e vuoto.
Hai esposto in tutto il mondo, in spazi pubblici e gallerie: quale tra queste mostre ritieni più significativa e alla quale sei più legato?
Ogni mostra per me è una tappa e ogni tappa anche quelle inutili sono sempre importanti. Anzi forse le mostre sbagliate sono più utili delle altre. Capisci che direzione prendere. Ti stacchi dal tuo lavoro e hai in quel modo uno sguardo neutro. Comunque se devo scegliere ti direi la mostra alla Bergamini coi quadri colorati di tanti anni fa, “Nobu at Elba” a Villa Panza a Varese e “Showboat”, l’ultima che ho fatto al Castello Sforzesco.
Nella tua vita un rapporto molto importante e formativo è stato quello con tuo zio Giovanni Testori, che sicuramente non ha bisogno di presentazioni. Ci diresti quali secondo te quali sono le sue qualità più importanti ed interessanti e che cosa ti ha lasciato, cosa di lui ti porti dentro?
Testori, che noi fratelli chiamavamo zio Gianni, è stato uno zio, un amico e un fratello. Il suo punto di vista era per me sempre fondamentale. E io avevo per lui un’ammirazione sconfinata e anche oggi è esattamente ancora così. A Brera dei ragazzi mi hanno chiesto di fare una lezione su di lui. Diciamo la verità che è stato un enorme vantaggio avere uno zio così ingombrante. Mi ha insegnato quanto sia importante avere rispetto del proprio lavoro. Che niente si ottiene con niente. Quanto sia bene essere severi con sé stessi e pensare sempre che c’è sempre una possibilità in più. Ma mi ha anche insegnato che delle volte va bene anche ridere e non prendersi troppo sul serio.
Quale è l’artista che ti ha influenzato maggiormente?
Direi che va a periodi. Ma sempre direi Matisse, Morandi e Cy Twombly.
Ti sei diplomato presso l’Accademia di Brera e da un paio di anni hai iniziato ad insegnare proprio a Brera. Anche se era passato parecchio tempo, com’è stato questo ritorno in veste di docente? È cambiato l’approccio all’arte e il modo di fare arte da quando eri studente tu?
Ho cominciato a prendere le misure. Ho capito quanto sia importante azzerare tutto e partire dall’alfabeto, dalle maiuscole e dalle barrette. Io dico ai ragazzi: non siamo qui per fare delle opere d’arte ma per capire solo dove possiamo andare. Quali sono le nostre armi segrete per fare qualcosa non dico di nuovo ma che stia in piedi. Dipingere è come suonare un pianoforte, come imparare una lingua. Ci vuole temperamento, costanza, dedizione e amore. L’approccio alla fine non credo sia cambiato da quando io andavo a Brera tanti anni fa, è sempre per fortuna un pasticcio in cui si cerca di trovare il bandolo della matassa. Come dicevo nel mio libro L’intervista, non esistono per trovare la strada le Guide rosse, né le Guide blu. Ma in realtà mi diverto e ti rendi conto ogni ragazzo è diverso dall’altro. Ognuno ha un suo mondo.
Attualmente invece stai lavorando a qualche progetto?
Ho tre progetti uno per il Museo d’arte moderna di Arezzo dove continuo il lavoro del Castello, “Showboat”. Poi un nuovo libro d’artista con Mimmo Di Marzio che parte dal progetto “Urpflanze” per Monza attraverso solo delle immagini, alcune manipolate e altre casuali. E poi una mostra per Bolzano da Antonella Cattani, ma lì sono ancora nel buio e non ho ancora capito cosa fare. Una bella galleria, uno spazio neutro non difficile ma forse per questo ti apre un ventaglio di possibilità differenti. Ma sarà ad aprile, quindi ho ancora un po’ di margine per ragionare.
Grazie Giovanni Frangi: che l’arte sia sempre con te!