L’archeologia, come disciplina di studio e applicazione sul campo, costituisce la porta d’accesso alle grandi verità fondative e contraddizioni della storia umana, intesa come sviluppo della coscienza, e permette di riconoscere nella testimonianza del frammento “sopravvissuto” il filo comune che lega e conduce l’esistenza presente. Fin dagli albori della nostra “nascita” su questa Terra, il segno inciso, l’impressione, la necessità di testimoniare e quindi di narrare hanno costituito il germe di ogni sistema e sovrastruttura successivi. Ma come collocarsi di fronte alle prime manifestazioni materiali della riflessione e vita umana risalenti al periodo del Paleolitico? Il sentimento di un peso fisico, massiccio, che grava sul mio spirito, nato dalla meraviglia suscitata dal passaggio dei secoli e dalla bellezza delle prime presenze animali dipinte mi ha colto impreparata quando ho visitato la prima sala del Museo delle Civiltà Anatoliche di Ankara.
Struttura che accoglie al proprio interno i reperti archeologici dell’Anatolia, il museo presenta opere dal valore inestimabile. Manufatti che possono essere definiti la radice terrena del nostro procedere nel mondo e la cui vista permette di riflettere ancora (perché il chiedersi continuo “chi siamo” costituisce il fondamento dell’esistenza stessa e dell’arte) e interrogarsi sull’origine ancestrale che ci accomuna. Nelle culture occidentali la scrittura, nata in Mesopotamia circa 5000 anni fa, costituisce uno dei termini di paragone e differenziazione rispetto alle altre culture (a prevalenza orale, ma non solo), entrambi sistemi di vita di egual valore, ove però la presenza di una forma scritta ha portato allo sviluppo della Storia nei termini in cui la conosciamo oggigiorno (è bene mettere in luce come il confronto con altri popoli, che non presentano tali “formule” e cristallizzazioni scritte abbia raggiunto nel secolo scorso una deriva razzista senza limiti nata dall’approccio di analisi evoluzionista).
Il museo presenta nella sala dedicata alle colonie commerciali assire le prime forme di scrittura dell’Anatolia, risalenti ad un periodo compreso tra il 1950-1750 a.C, presentate sotto forma di tavolette di argilla, le quali recano la forma cuneiforme assira. Mentre analizzo la complessità di fattura e l’alto grado di testimonianza di una storia passata-lontana, mi imbatto in una tavoletta di terracotta dal titolo “Certificato di Divorzio”, la cui traduzione afferma “questo documento stabilisce che uomini e donne hanno uguali diritti di divorziare e risposarsi e di scegliere il proprio coniuge. Inoltre, poiché il divorzio avviene con il consenso di entrambi gli individui, si precisa in particolare che non vi sarà alcun compenso”.
Queste parole impresse testimoniano una coscienza in materia di diritti individuali senza pari, una maturità nella comprensione del rapporto fra i sessi che paragonata alla situazione attuale mondiale non crea altro che brividi sulla mia pelle. Parole che attraversano millenni di storia, che rivelano come le attuali questioni di genere, dibattiti politici e non sulla natura della scelta individuale in materia “d’amore” possano in realtà essere risolte in modo così semplice, così naturale e evidente, come se la verità di tale gesto fosse data per scontata. Il cammino che segue la tavoletta ha portato allo stretto condizionamento dell’individuo ai sistemi di conduzione politica, ai fondamenti “confessionali” autoritari, agli assunti misogini e classisti che hanno chiuso serrato e definito quale che sia la libertà di amare. Ecco perché la cultura e la conoscenza di ciò che ci ha preceduto è necessaria a costruire e decostruire il presente, perché è solo nelle tracce del passato che possiamo ritrovare la nostra storia e le ragioni sociali del nostro esistere.
In Italia, il 12 maggio 1974 il popolo fu chiamato a votare per il Referendum abrogativo sul divorzio, dopo una battaglia combattuta fisicamente (con proteste, dibattiti, scontri) anche sul piano mediatico (in funzione di una silenziazione delle prime voci femministe che si alzarono di contro al potere cristiano-cattolico imperante, presente ancora oggi nella Penisola italiana sulle questioni di etica-morale). La conquista del diritto al divorzio costituisce una delle tappe fondamentali dell’emancipazione femminile e di conseguenza collettiva, ma come tutti i diritti conquistati questi devono essere protetti e preservati. La legge, come testimonia questa tavoletta di argilla, non è una e non è per sempre. Il diritto all’amore, alla libertà individuale nel rispetto dell’altro devono essere insegnati (e qui mi trovo costretta ad usare un imperativo categorico), innanzitutto a partire dall’esperienza collettiva, la quale ci ricorda quanto le differenze individuali nient’altro che siano il guscio di un’anima-respiro comune ad ogni essere vivente.