I pareri sono molto contrastanti. C’è chi l’ha definita “vergognosa” (il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano), e chi, invece, ne recepisce le ragioni, e la condivide. Stiamo parlando della lettera aperta, firmata da artisti, curatori e intellettuali di tutto il mondo, che chiedono l’esclusione di Israele dalla Biennale di Venezia. Una lettera che ha scatenato il finimondo nel mondo dell’arte: è giusto censurare l’arte, e gli artisti, per “punirli” della posizione (e delle azioni) del loro governo? E il Padiglione di un paese va identificato necessariamente con le posizioni del suo governo, o rimane in ogni caso una “voce libera”, che non è né giusto né possibile ridurre all’interno delle dinamiche della geopolitica mondiale? Noi stessi, che scriviamo questo articolo, abbiamo cercato di non demonizzare né respingere a priori, per provare a scavare a fondo tra le ragioni che hanno spinto quasi ventimila tra artisti, curatori e intellettuali (anche molto noti: tra loro ci sono ad esempio Nan Goldin e Martin Parr), a scrivere una lettera tanto controversa.
Ma vediamo i fatti. Dopo il terribile attacco di Hamas del 7 ottobre scorso, che ha ucciso 1.200 israeliani e ha comportato la presa di oltre 200 ostaggi, Israele ha ripetutamente condotto attacchi aerei e un’invasione di terra su Gaza. Un gruppo di attivisti noto come Art Not Genocide Alliance (ANGA) ha pubblicato dunque una lettera aperta chiedendo che Israele sia escluso dalla partecipazione alla 60esima Biennale di Venezia di quest’anno. ANGA si descrive come un gruppo internazionale di artisti, curatori, scrittori e operatori culturali.
Accusano la Biennale di aver taciuto sulle atrocità di Israele contro i palestinesi, sottolineando come si erano invece espresse a sostegno dell’Ucraina, dopo l’invasione russa nel febbraio 2022, sia la Biennale che la curatrice della 59esima edizione, Cecilia Alemani. Un’altra storica presa di posizione della Biennale, citata dai promotori della protesta, fu quella di vietare l’accesso all’esposizione internazionale al Sudafrica dal 1968 al 1993, fino a quando il regime dell’apartheid fu abolito.
“L’arte non nasce nel vuoto e non può trascendere la realtà”, si legge nella lettera. “Mentre il team curatoriale israeliano progetta il cosiddetto Padiglione della fertilità riflettendo sulla maternità contemporanea, Israele ha ucciso più di 12.000 bambini e distrutto l’accesso alle cure riproduttive e alle strutture mediche. Di conseguenza, le donne palestinesi fanno cesarei senza anestesia e partoriscono per strada”. La lettera delinea la politica che circonda il conflitto Israele-Hamas così come l’enorme perdita di vite umane a Gaza, con il numero di morti recentemente stimato fino a 250 palestinesi al giorno. “Qualsiasi opera che rappresenti ufficialmente lo Stato di Israele costituisce un’approvazione delle sue politiche genocide”, conclude la lettera.
Israele, che ha una struttura permanente per i suoi padiglioni nella frequentatissima sede dei Giardini, quest’anno sarà rappresentato da Ruth Patir. In ottobre, Patir e le curatrici Mira Lapidot e Tamar Margalit si sono detti “sbalorditi e terrorizzati” dall’attacco di Hamas e hanno aggiunto: “Il nostro immenso senso di dolore è aggravato dalla profonda preoccupazione per la crescente crisi umanitaria a Gaza”.
La lettera di ANGA è stata firmata anche dal Palestine Museum US, che aveva presentato un progetto per un ipotetico padiglione palestinese con il titolo “Stranieri nella loro patria”, una mostra che proponeva le opere di 24 artisti palestinesi, rifiutata però dalla Biennale anche come evento collaterale ufficiale. La mostra andrà avanti comunque a Palazzo Mora di Venezia come evento collaterale non ufficiale, inaugurando sempre il 20 aprile.
Della mostra programmata da Israele per la biennale, Saleh (Direttore del Palestine Museom US) ha detto: “Questa non è solo una mostra di individui israeliani. È lo Stato di Israele che sta realizzando la mostra. Ciò è inaccettabile quando Israele sta perpetrando un vero e proprio genocidio contro il popolo di Gaza”. È anche a favore addirittura del boicottaggio della intera Biennale.
Accanto a Saleh c’erano altri che si sono espressi a favore della Palestina e hanno firmato l’appello al boicottaggio: la fotografa Nan Goldin, che ha pubblicamente cancellato un progetto col New York Times, sostenendo che la sua pubblicazione sarebbe stata una “complicità con Israele”; l’artista Mike Parr, che secondo quanto riferito è stato abbandonato dal suo gallerista dopo aver messo in scena una performance che menzionava Israele e Palestina; e David Velasco, che è stato licenziato come redattore di Artforum dopo che aveva pubblicato una lettera aperta di artisti che chiedevano un cessate il fuoco.
Anche Jesse Darling, il vincitore del Turner Prize dello scorso anno, ha firmato la lettera, così come artisti come Carolina Caycedo, Meriem Bennani, Naeem Mohaiemen, Frieda Toranzo Jaeger, Evan Ifekoya, Lydia Ourahmane e Katja Novitskova. l’artista marocchino Yto Barrada, l’artista e scrittrice britannica Hannah Black, la performance artist basilese Sophie Jung, la piattaforma curatoriale italiana LOCALES Project e il CEO della Biennale di Karachi Niilofur Farrukh. Tra i firmatari della lettera c’è Adam Broomberg, un fotografo sudafricano residente a Berlino che rappresenta l’organizzazione palestinese Artists and Allies of Hebron in un evento collaterale ufficiale all’esposizione in programma a Venezia.
Il ministro italiano della Cultura, Gennaro Sangiuliano, ha detto che la Biennale di Venezia non escluderà Israele e ha definito la richiesta “vergognosa”. Non va però domenticaqto che la Palestina non ha un padiglione nazionale perché l’Italia non la riconosce come Stato sovrano. Israele sta affrontando crescenti critiche internazionali, per la sua offensiva nell’enclave palestinese, che è stata innescata dal massacro del 7 ottobre di soldati e innocenti israeliani da parte dei terroristi di Hamas. Quasi 30.000 palestinesi sono stati uccisi dall’inizio della guerra, secondo le autorità sanitarie gestite da Hamas, anche se queste cifre non possono essere verificate in modo indipendente. Israele, dal canto suo, respinge fermamente ogni accusa secondo cui le sue azioni equivalgono a un genocidio.
Le controversie su Israele hanno tormentato le arti sin dallo scoppio della guerra. I premi sono stati messi in discussione e i relatori sono stati revocati. Ultimamente sono circolate petizioni che chiedono anche l’esclusione di Israele dall’Eurovision Song Contest. Israele si sta difendendo anche davanti alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia, dove il Sudafrica ha intentato una causa accusandolo di genocidio a Gaza.
In questo articolo abbiamo raccolto l’opinione di artisti e intellettuali, di origine arabe ma non solo, per cercare di capire quali siano le reazioni del mondo dell’arte (e in particolare di quella parte del mondo dell’arte che è stato sempre molto vicina alla causa palestinese: in un altro articolo, invece, Boicottaggio a Israele, c’è chi dice no: “demagogico e sbagliato”, abbiamo riportato le ragioni degli artisti e intellettuali che, per religione o per affinità culturali, sono fortemente contrari al boicottaggio), di fronte a una proposta senz’altro molto radicale e controversa, ma che si basa su ragioni condivise da molti in una situazione tanto drammatica che ancora una volta scuote e insanguina il Medio Oriente.
Moni Ovadia (attore, scrittore e drammaturgo), noto per il suo costante impegno politico e civile a sostegno dei diritti e della pace, ci spiega perché considera necessaria la richiesta di boicottaggio del Padiglione israeliano: “In linea di principio io sono contrario a che l’arte sia censurata”, dice, “ma in questo caso sono completamente d’accordo. Ogni gesto che richiami l’attenzione sull’orrore che sta avvenendo in questo momento a Gaza è giusto e legittimo. Quello che il governo israeliano sta perpetrando sul popolo palestinese è molto più grave di quello che appare. E quelli che usano il 7 ottobre per difendere l’indifendibile, devono ricordare che siamo di fronte a 75 anni di occupazione. Il popolo israeliano deve capire la gravità di quello che sta succedendo. In questo modo Israele sta perdendo ogni legittimazione. Il problema principale è che non hanno mai voluto riconoscere il popolo palestinese come esseri umani. Gli stessi artisti dovrebbero rifiutarsi di rappresentare uno stato il cui governo sta compiendo questi crimini. La cosa peggiore che può capitare nella vita ad un essere umano è essere carnefice di un suo simile”.
Tagliente e senza mezze misure Monia Ben Hamouda, artista di origini tunisine: “Personalmente sono sempre stata molto attenta a non entrare mai, durante nessuna esposizione della Biennale, nel Padiglione Israele; quindi, accolgo la raccolta firme e lo statement di Art Not Genocide Alliance con un sospiro di sollievo e con grande sostegno e solidarietà. Finalmente si parla della questione palestinese nei termini giusti. Per troppo tempo quello che è un progetto colonialista violento, un regime fondato sull’idea di apartheid è stato accolto in ogni contesto senza incorrere in nessun fermo. La Biennale di Venezia faccia la sua parte nel sostegno ad un popolo vessato da 80 anni, altrimenti sarà la storia a giudicare il doppio standard”.
Omar Awada (stilista e artista di origini libanesi) ci dice: “Non penso che sia opportuno o giusto ospitare e far partecipare uno Stato che occupa Palestina da più di 75 anni! Uno stato che ha fatto di tutto per conquistare territori palestinesi uccidendo e togliendo ogni diritto a questo popolo oppresso. Io dico no alla partecipazione di Israele alla Biennale di Venezia che da cinque mesi commette un genocidio, è vergognoso solo il pensiero di dare questa opportunità agli occupanti e ai responsabili della morte di più di trentamila persone. Non riesco a comprendere come possono essere combinati insieme l’arte che è la libertà di pensiero con l’oppressione che impone uno stato che si nutre del sangue di innocenti”.
Anche Rania Ibrahim, giornalista e scrittrice Italo egiziana, è d’accordo con il boicottaggio: “Lo sport come l’arte le ho sempre viste come discipline che hanno la forza di abbattere muri e confini. Di andare oltre la politica. Sono, però, d’accordo con l’appello di alcuni artisti che vorrebbe escludere il Padiglione di Israele alla Prossima biennale. Serve un gesto collettivo che mandi un segnale forte, non si può ammettere nel mondo delle arti coloro che non hanno rispetto della vita dei civili e dei bambini, coloro che attuano punizioni collettive, soluzioni finali, chi chiama i palestinesi animali umani, chi taglia luce, gas, elettricità ad una popolazione già stremata, a chi nega il passaggio degli aiuti umanitari a chi spara ad una fila di disperati in attesa di una manciata di farina”.
Equilibrata l’opinione di Marco Scotini, curatore del progetto “Disobedience Archive” presente all’interno del Nucleo Contemporaneo della Biennale di Venezia. “Credo che l’arte stia diventando qualcosa di estremamente nevralgico all’interno delle relazioni sociopolitiche”, dice Scotini. “Ci sono sicuramente della contaminazione, la politica entra proprio all’interno di quegli spazi dell’immaginazione che oggi non possono essere più separati dal resto della vita. La neutralità dell’arte è impossibile, il rapporto tra forme espressive l’ho sempre visto un po’ come un campo di battaglia. Nel senso che per me è sempre stato difficile appunto separare una componente lavorativa da quello che si chiama ‘tempo liberato’ e questo diciamo a partire da una trasformazione antropologica dal fatto che usiamo i mezzi con cui lavoriamo ventiquattr’ore su ventiquattro. Questo vale naturalmente anche nell’ambito dell’arte. Quella che stiamo vivendo in questo momento è una situazione molto difficile, molto grave, e mi sembra un sintomo importante che qualcosa sta profondamente cambiando”.