by Alessandro Romanini
Come è ormai noto la 60° edizione della Biennale di Venezia, la prima diretta da un sudamericano, Adriano Pedrosa, concede ampio spazio all’analisi delle varie declinazioni del concetto di straniero, in linea con il titolo “Strangers Everywhere – Stranieri Ovunque”.
Il Nucleo Storico della 60° Biennale di Venezia, dal titolo “Strangers Everywhere – Stranieri Ovunque”, diretta da Adriano Pedrosa (il primo sud americano a ricevere l’incarico) è concepito con l’intenzione di rileggere in maniera neutra – non euro-centrica – il modernismo in una chiave globale, è suddiviso nelle sezioni dedicate a Ritratti, Astrazioni e diaspora artistica italiana, riunisce opere del XX secolo provenienti dai vari contesti geoculturali, America Latina, Asia, Mondo Arabo e Africa.
Proprio quest’ultima, l’Africa, vanta una consistente presenza di artisti nella mostra principale, una buona rappresentanza anche nella sezione speciale Disobedience Archive curata da Marco Scotini e si presenta con ben 14 partecipazioni nazionali e beneficia di una rinata attenzione internazionale dovuta anche ai nuovi assetti geopolitici che hanno convogliato gli interessi economici sul continente, un diffuso entusiasmo di alcuni paesi africani nel promuovere le forme espressive nazionali e alla grande capacità di penetrazione della cultura africana nei vari settori disciplinari, dalla musica al cinema, dal fashion design all’arte.
Dopo la defezione dell’ultimo momento del Marocco, registriamo anche ben tre new entry nelle partecipazioni nazionali africane, quella del Benin, Tanzania ed Etiopia.
Come già ci diceva Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia, “semper aliquid novi Africam adferre”, cioè dall’Africa c’è da aspettarsi sempre qualcosa di nuovo, qualche sorpresa e come chiosa un paio di millenni dopo Simon Njami – che quest’anno cura il Padiglione Nazionale della Côte d’Ivoire – “L’Africa è il luogo per eccellenza del caos e della metamorfosi”.
Queste massime fungono perfettamente da elementi-guida per analizzare i Padiglioni Nazionali africani, accomunati da un grande entusiasmo nell’affacciarsi per la prima volta o di nuovo alla più importante manifestazione espositiva del mondo, da una cosciente deroga dei canoni di classificazione, tecnica critica e allestitiva invalsi in occidente e allo stesso tempo animati da una volontà di confronto e apprendimento inedite.
Per completare l’armamentario degli strumenti di analisi è necessario considerare un complesso di fenomeni che rappresentano inevitabilmente elementi propedeutici alla comprensione esaustiva delle opere esposte e delle tematiche affrontate, tra questi l’atmosfera derivante dalla Cancel Culture, l’onda lunga del #Blacklivesmatter e del dibattito sulla restituzione delle opere e dei manufatti trafugati durante il buio periodo coloniale, oltre alle varie declinazioni del concetto di “straniero” che investono l’Africa, sia dal punto di vista coloniale e postcoloniale, dei diritti umani, del gender, delle migrazioni ecc.
Repubblica del Benin
In questo contesto acquista un notevole rilievo la prima partecipazione alla Biennale di Venezia della Repubblica del Benin, ex Dahomey, che si è affrancata dalla colonizzazione nel 1960 ed al centro di un dibattito pluriennale riguardante la restituzione dei preziosi bronzi saccheggiati in occasione della famosa spedizione punitiva dell’esercito britannico nel 1897.
Il Padiglione del Benin all’Arsenale è stato affidato all’esperto curatore nigeriano Azu Nwagbogu, fondatore e direttore dell’African Artist Foundation (AAF) dedicata allo sviluppo e promozione delle arti e degli artisti del continente africano, con sede a Lagos.
Nwagbogu è anche tra i fondatori di Lagos Photo Festival – tra i principali festival dedicati alla fotografia in Africa – ha dato vita anche a Art Africa Base, uno spazio virtuale per sostenere e divulgare l’arte africana contemporanea ed è stato direttore dello Zeit MOCAA Museum of Contemporary Art di Cape Town, il pionieristico museo interamente dedicato alla creazione contemporanea del continente, aperto nel 2017.
Ad affiancare il curatore nigeriano nel team curatoriale, troviamo Yassine Lassissi, della Galerie Nationale du Bénin e l’architetto Franck Houndégla, già autore dell’allestimento dei Rencontres de Bamako (Mali), la Biennale africana della fotografia, di mostre per la Cité des Sciences et de l’Industrie di Parigi e responsabile del riallestimento della stazione della metro parigina, Villejuif.
Il titolo scelto per la mostra del padiglione è Everything Precious Is Fragile (Qualsiasi cosa preziosa è fragile), attorno a cui sono state riunite le opere degli artisti selezionati: Ishola Akpo, Moufouli Bello, Romuald Hazoumè e Chloè Quenum.
Le opere che costituiscono la mostra ospitata nel Padiglione del Benin esplorano e richiamano alla mente del visitatore la ricca e variegata storia culturale del paese africano, alludendo a temi come la tratta degli schiavi, la filosofia Gèlèdé, la spiritualità Vodun, religione animista tramandata dagli antenati e tutt’oggi praticata lungo tutto il litorale del paese e il cosiddetto “rimatrimonio”, un’interpretazione femminista della restituzione. Quest’ultima non chiede solo il ritorno ai legittimi proprietari dei manufatti trafugati ma anche la ricostituzione integrale della filosofia e degli ideali beninesi precoloniali.
Hazoumè (1962) è il decano del drappello degli artisti ed è già famoso a livello internazionale per le sue sculture ottenute con oggetti di riciclo e soprattutto per la serie delle “Masques Bidons” ottenute da fusti di petrolio modellati a foggia di maschera della tradizione subsaharaiana.
Ishola Akpo (1983) è una fotografa e artista multimediale come la più giovane del gruppo Mofouli Bello (1987) esperta di diritto del lavoro e giornalista oltre che artista e attivista e Chloè Quenum (1983) diplomata all’École Nationale des Beaux Arts di Parigi e attualmente in residenza a Villa Medici a Roma, con un progetto dedicato a Nella Larsen, protagonista dell’Harlem Reanaissance e autrice del libro Passing (1939) sui temi della segregazione e del razzismo.
Etiopia
Tra gli absolute beginners in laguna troviamo anche l’Etiopia ospitata a Palazzo Bollani, che si affida all’originale cura di Lemn Sissay, cancelliere del patrimonio etiope nel Regno Unito, poeta, drammaturgo e pluripremiato autore e conduttore televisivo, che ha selezionato l’artista Tesfaye Urgessa che presenta la mostra personale Prejudice and Belonging.
Opere frutto dell’esperienza degli ultimi 13 anni trascorsi in Germania, dove si è diplomato alla Staatlichen Akademie di Stoccarda, dove lavora e risiede a Nürtingen – alternandosi con Addis Abeba – e dove ha affinato il suo stile in grado di rielaborare gli stilemi della tradizione etiope e la cultura iconografica europea, focalizzando l’attenzione su tematiche come quella dell’emigrazione e dell’identità africana.
Tanzania
A completare la pattuglia dei debuttanti in laguna, la Repubblica Unita della Tanzania che partecipa con uno spazio alla Fabbrica del Vedere, sede anche dell’archivio Carlo Montanaro, con una mostra dal titolo A Flight in Reverse Mirrors, curata dall’italiano esperto di arte moderna e sociologo Enrico Bittoto, che coinvolge quattro artisti riuniti intorno al concetto di “trickster”, la figura mitologica che agisce come mediatore fra umano e divino come viatico per concentrare l’attenzione sulle complesse dinamiche che guidano l’uomo e la sua interazione con lo straniero e con la natura.
Gli artisti invitati sono: Haji Chilonga (1969), discendente di una tradizione famigliare nell’ambito della ceramica e della metallurgia, la pittrice Happy Robert, l’autodidatta Lutengano Mwakisopile (1976) senza dimenticare il tema della Biennale e i concetti di integrazione, incarnati dall’artista bolognese Naby.
La pattuglia dei paesi “veterani” della kermesse lagunare, cercano conferme, allestendo eventi che si allineano alla tematica della Biennale, offrendo in alcuni casi sorprendenti formule.
Repubblica del Camerun
La Repubblica del Camerun opta per una mostra dal titolo Nemo Propheta in Patria, che ospita a Palazzo Donà delle Rose, le opere di ben 14 artisti di diverse nazionalità (Camerunensi, italiani, cinesi…) riuniti dai curatori Paul Emmanuel Loga Mahop e Sandro Orlandi Stagl secondo principi di inclusione.
Repubblica Democratica del Congo
La Repubblica Democratica del Congo, nonostante il periodo all’insegna della violenza che colpisce la sua parte orientale, messa in evidenza anche dai giocatori della nazionale di calcio del paese durante gli inni nazionali nella recente Coppa d’Africa, ha deciso di rinnovare la sua presenza in laguna, allestendo a Palazzo Canova a Cannaregio, una mostra dal titolo Lithium, che riunisce 8 artisti, coordinati dal curatore italiano Michel Gervasuti e da Jason Putnam.
Nel drappello anche Eddy Ekete (1978), soprannominato “Tin Can Man”, che allestisce performance coperto di lattine recuperate dalla strada e creatore del festival Kinact a Kinshasa e Michel Ekeba del collettivo artistico multimediale legato alla cultura underground Kongo Astronauts.
(1 – continua)