Il grande nodo italico delle arti riguarda il diciannovesimo secolo, vecchio ostaggio di mistificazioni e retorica in un Paese da alfabetizzare, con una Parigi che oltralpe ospitava lo spettacolo esclusivo di un moderno circuito globale. L’Ottocento italico cresceva a passo di carrozze, tra disunione e cultura contadina, esacerbando nuovi malesseri che anticipavano futuri benesseri. Una penisola ormai immemore di latinismi e rinascimenti, quando imperatori e aristocratici contagiavano il tempo con la scrittura del progresso; un patrimonio infinito dentro un paradiso terrestre finito, luogo in cui si è inventato il concetto stesso di turismo, eden per coloro che viaggiavano tra rovine sublimi, campagne sensuali, mari epici, strade maestre, panorami mozzafiato…
In quest’Italia risorgimentale Napoli restava anomalia pungente, partenogenesi collettiva in una terra antica e fertile, ricca di geologie preziose e menti illuminate, intrico culturale di scienze e visioni logiche, crogiolo etico avanzato, figlia di culture che hanno attraversato la permeabilità popolare e l’onda aristocratica, creando quella miscela in cui bellezza e progresso sembrano parole gemellari di un idillio antropologico.
Napoli Ottocento (alle Scuderie del Quirinale, fino al 16 giugno 2024, Catalogo Electa) è un racconto sinuoso di grandi artisti e mirabili visioni figurative. L’intreccio espositivo rispecchia e sviluppa l’attitudine categoriale del territorio: la Natura al centro della storiografia, del modello scientifico e del multiculturalismo, nel cuore di un Mediterraneo che qui ha fuso miti e nuovi riti, leggende e mondi tellurici, luci impressioniste e valore scientifico, in equilibrio incostante tra mare e vulcano, ricchezza e povertà, lusso e perversione, lucentezza e oscurità. Un contesto accogliente d’integrazioni avanzate, amato da artisti e poeti del Grand Tour, libidine per archeologi e geologi, una culla climatica che eleggeva il dionisiaco a modello d’esistenza e la grevità sublime a modello d’apertura morale.
Oltre duecento anni di dominazione spagnola, repubblica giacobina nel 1799, sotto la Francia dal 1806 al 1815, poi dal 1816 capitale di una monarchia secondo il trattato di Vienna: Napoli era la terza città d’Europa dopo Londra e Parigi, vera capitale italiana e centro di un Mezzogiorno che incarnava la calamita cosmica delle migliori menti generazionali. Il curatore Sylvain Bellenger ha scelto il Vesuvio come cuore motorio della narrazione: dio del fuoco e grande madre geologica che, assieme a San Gennaro, unisce tutti sotto la stessa democrazia metafisica.
Scivoliamo subito tra tele a tema lavico: vien quasi voglia di allontanarci tanto sembrano bollenti le pennellate, pulsanti le zone rosse e gialle, una potenza oscura che crea un sottogenere nella categoria del paesaggio, lo spin-off di una vertigine estrema che porta la notte dantesca nel ciclo en plein air degli impressionisti radicali.
Ritroviamo Pompei ed Ercolano coi loro grecismi e le loro archeologie d’identificazione territoriale; ritroviamo orientalismi che caricano le vibrazioni luminose di albe e tramonti, imprimendo odori e rumori che sembrano giungere a Napoli da venti marocchini e algerini, da deserti o terrazze bianche durante la preghiera del muezzin; ritroviamo scene agricole che trasformavano la miseria in una risorsa comunitaria; ritroviamo il Museo Artistico Industriale, realtà unica che raccoglieva patrimoni mentre formava artigiani e si apriva ad una produzione di manufatti vendibili; e poi ritroviamo tante donne, figure femminili che rompono il patriarcato ottocentesco, lasciando al Meridione la coscienza di comunità antiche e quindi modernissime, dove adolescenti e mamme gestivano gli equilibri di una popolazione paziente, risoluta, amabile ma anche fierissima e indipendente.
E poi ci sono loro, Antonio Mancini e Vincenzo Gemito: artisti strabilianti per qualità e innovazione, maestri lucidi e irradianti che filavano alle velocità di Degas e Monet, senza nulla da invidiare a coloro che la Francia considerava i creatori del nuovo sguardo. Le sculture di Gemito parlano con grazia divina ed espressioni prive solo di parole, così quei disegni che danno vitalità e joie de vivre ai giovani soggetti, in particolare il ritratto di Laura Bertolini col cane, un disegno che si porta appresso il mito michelangiolesco e la grazia sospesa di Guido Reni.
Mancini irradia la mostra con le sue figure pittoriche, in sintonia con il segno impressionista ma già verso una coscienza informale, dentro un rituale materico che esplode con La Dama in rosso, capolavoro del 1926 in cui la figura di profilo sembra fondersi nella materia scarna di Burri. E poi quell’autoritratto di Mancini, un occhio domestico dell’uomo anziano con un testo biografico scritto sulla stessa tela, anticipando temi concettuali che il Novecento avrebbe maturato dal Dopoguerra in poi.
A proposito, tenete l’occhio puntato sulla scultura di Lucio Fontana dal titolo Donna con fiore, pezzo maestoso del 1948 in cui l’artista – selezionato come Burri per l’evidenza ereditaria del materismo di Mancini – portava la ceramica ad uno status plastico che solo Leoncillo raggiunse con pari armonia cosmica.
Come dimenticare Filippo Palizzi e i suoi animali arcadici, la sua idea zoologica dopo il diluvio universale, le sue pecore, agnelli e vitelli che dipingeva come fossero fotografie in posa da set verista. Un autore strabiliante che dava sentimenti leggibili al mondo animale in un contesto rurale, capace di filtrare gli echi orientali in una figurazione meticcia e multiculturale.
E poi Giuseppe De Nittis coi suoi paesaggi panoramici, quelle aperture impressioniste che assorbivano il clima atmosferico e comunitario, asciugando scorie materiche e osservando gli equilibri fotopittorici tra primo piano e orizzonte, corpi vicini e lontani, tra cieli densi e strade dense di sudore, fatica, lavoro.
Una mostra che conferma le Scuderie come spazio per una progettualità narrativa, dove si trasforma il tema espositivo in un racconto dal passo filmico, diviso per capitoli (primo e secondo tempo) del percorso su due livelli, con apertura e chiusura (titoli di testa e coda) con il colpo teatrale dello scalone, oggi arricchito da proiezioni digitali che aggiungono un sogno liquido ad un sogno lungo quanto la mostra stessa.
Epilogo d’obbligo con il ragazzino di Giuseppe Renda, la scultura che accoglie dopo lo scalone e poi saluta gli astanti (entri e vedi una posizione, esci e vedi il lato posteriore) alla fine del percorso: un guitto napoletano, una faccia memorabile che ci punta il dito addosso, immerso in un gioco collettivo che smaschera le nostre incertezze e la paura di fare troppo rumore per nulla. Lui se ne frega e indica la via ma senza arroganza, semplicemente vivendo, sotto il sole e le ombre del Vesuvio, come se il futuro si fermasse nel luogo impossibile che il dito rivela.