Ci voleva tutto il coraggio e l’energia polemica di Vittorio Sgarbi per chiamare “Arte e fascismo” una mostra che parla dell’arte durante il fascismo. Perché, qual è il problema? dirà qualche lettore. Se organizziamo una mostra di pomodori non possiamo chiamarla “Mostra di pomodori”? Le cose non sono così semplici e infatti nessuna delle tante rassegne sull’arte nel Ventennio si era mai chiamata così.
Facciamo una premessa. In un artista quello che deve interessare è l’arte. Sapere che sia fascista, comunista, anarchico può aiutarci a comprendere la sua figura o il momento storico in cui ha vissuto, ma non deve impedirci di riconoscere la sua grandezza, quando c’è. E non per una dimenticanza ipocrita, ma perché l’arte va al di là anche della storia e i suoi significati sono indipendenti anche dall’artista. Quando Sironi dipinge il Condottiero a cavallo, 1935, ora esposto al Mart, voleva esprimere visionariamente la grandezza dell’Italia, ma la sua natura drammatica ha il sopravvento: quello che vediamo è una figura che sembra incarnare lo spirito del mondo (potrebbe essere Napoleone come Alessandro Magno) e avanza nella storia senza preoccuparsi degli uomini, minimi e senza nome, che travolge nel suo andare.
Per questo e altri motivi nessuno dovrebbe negare il valore di Luigi Pirandello, Eleonora Duse, Giuseppe Terragni o Arturo Martini per la loro adesione al fascismo, e nessuno dovrebbe essere accusato di apologia fascista se ammira Marinetti, Balla o Depero, che furono fascisti fino alla fine. Semmai bisognerebbe capire perché lo furono, ma qui entriamo in un campo di sabbie mobili talmente vischioso e rischioso che nessuno ha voglia di affrontarlo. Tantomeno noi.
Se posso indulgere a un dato biografico, quando nel 1990 ho organizzato la mostra “Sironi. Il mito dell’architettura” al PAC di Milano, un noto scrittore, vedendo esposti due fasci littori, dichiarò su uno dei maggiori quotidiani italiani che bisognava “toccarsi i cosiddetti”. Scrisse proprio così, e di peggio, alludendo a un capolavoro di forza espressiva come il Padiglione del Popolo d’Italia, disegnato da Muzio e Sironi nel 1928. Quando nel 1997 ho organizzato a Palazzo Martinengo a Brescia una mostra su Margherita Sarfatti (la prima, scusate la patetica rivendicazione), tutto andò liscio perché pochi sapevano che la scrittrice aveva avuto una relazione sentimentale di quasi vent’anni con Mussolini. Sempre nel 1997, una mostra di Giorgio Di Genova a Seravezza (L’uomo della provvidenza. Iconografia del duce 1923-1945, ndr) che documentava lo stesso periodo, suscitò furibonde polemiche. Il giudizio artistico, insomma, si confonde ancora col giudizio politico. Di qui cautele, mimetismi, donabbondismi, che la mostra del Mart supera per la prima volta.
Ideata appunto da Vittorio Sgarbi e curata da Beatrice Avanzi e Daniela Ferrari, “Arte e fascismo” è una mostra ricchissima (sono esposte 400 opere fra quadri, sculture, progetti architettonici, fotografie, manifesti, documenti) e la consigliamo vivamente a due categorie di persone: quelli che conoscono l’arte italiana fra le due guerre e quelli che non la conoscono. Non è un gioco di parole. Chi non conosce quel periodo – quasi tutti, perché i nostri manuali scolastici si fermano, tranne poche eccezioni, al futurismo e alla metafisica – avrà l’idea di un momento artisticamente straordinario, tra Novecento, Italiens de Paris, aeropittura, razionalismo, astrattismo, espressionismo. Chi quel periodo lo conosce bene potrà trovare artisti mai sentiti nominare (non facciamo finta di essere onniscienti), come il formidabile animalista Felice Tosalli, cui è riservata una personale (Felice Tosalli, Animali di un altro sogno) curata da Alfonso Panzetta e Beatrice Avanzi, e come Domenico Ponzi; o poco noti come Pietro Gaudenzi, cui è dedicata per la prima volta una personale, curata da Manuel Carrera e Alessandra Tiddia.
La mostra infatti non vuole documentare tutti i protagonisti del Ventennio, ma accostare ad artisti ben noti, presenti con capolavori che si rivedono sempre volentieri (dalla Donna al sole di Arturo Martini alla Solitudine di Sironi), molti artisti da riscoprire. Dimostra così che sotto la dittatura, accanto a opere adulatorie o magari – chi può saperlo? – sinceramente attratte dalla figura di Mussolini, ci fu una fioritura artistica che mezzo secolo dopo farà dire a Pontus Hulten: “In arte il ventesimo secolo è stato il secolo dell’Italia”.
Spesso poi le carte si confondono e quello che a prima vista sembra una sorta di “realismo fascista”, simile al realismo socialista, rivela una inaspettata vitalità. Mentre altre opere che sembrerebbero all’unisono con il regime furono poco amate dai fascisti. Pensiamo al Dux di Wildt, di cui in mostra c’è anche una impressionante versione in bronzo, crivellata di colpi dopo il 25 aprile. Lo scultore aveva disegnato Mussolini con le infule sacerdotali, attributo di Augusto. Lo rappresenta dunque come un nuovo Augusto, creatore di una rinnovata pax romana. Per molti fascisti invece il ritratto svirilizzava il Duce, con quelle bende inermi e senili. Come dicono i sapienti, è l’eterogenesi dei fini…