Accade spesso di varcare la soglia del museo senza tema di straordinarietà. Di rado, attimo fuggente ma solido, lo sguardo entrante capta l’armonia insospettabile di un perfetto equilibrio poetico, narrativo ed estetico. Chiamiamola folgorazione o con sinonimi di pari evidenza: così mi è accaduto pochi giorni fa a Villa Medici, quando la sublime follia di artisti laterali, isolati, tecnicamente pazzi (parola a suo modo bellissima per la deflagrazione di quelle zeta nucleari) ha trascinato il mio occhio nell’anatomia di un’ossessione creativa entro contesti di alterazione cerebrale.
Epopee celesti porta a Roma la Collezione Decharme, dedicata al fenomeno definito ART BRUT, ovvero l’espressione novecentesca che raccordava folli di varia natura sotto l’egida di una figurazione espressiva e selvaggia, figlia putativa di quel maestro “razionale” e integrato di nome Jean Dubuffet.
La ripartizione espositiva segue sei temi portanti: Giornali dal mondo / Anarchitetture / Incontro con i fantasmi / Eterotopie scientifiche / IO è un altro / Cartografie mentali… se ragionate sui titoli capirete il ponte tra realtà e invenzione, un autismo creativo in cui gli autori mostrano variabili morbose e ossessive, chiusure cicliche su interessi univoci, visionarietà sconfinata, bioritmo costante e rigido: un mondo dentro il mondo, una catena tra allucinazioni e delucidazioni che deforma la norma e introduce al misticismo, alla mitomania divina, alla convinzione di essere l’eletto tra i mortali. O, semplicemente, ad ascoltare le voci interiori, dando seguito alle richieste che arrivano da dentro, senza ipotesi di deroga, senza possibilità di fare altro da ciò.
Ad unire gli autori qui raccolti (alcuni anonimi ma la maggior parte identificati) sussiste un dato comune: la forma di un’espressione che agisce per estremo accumulo o radicale sottrazione, secondo modelli di ripetizione seriale dei pensieri e gesti, con risultati in cui l’artista non esce da una visuale assorbita dentro quel tema abitabile. Storia collettiva e privata aderiscono in forma indistinta, al punto da trasformare questi folli in piccoli profeti o sciamani visivi, figure “pericolose” eppure preziose che non filtrano i pensieri in forma educata ma rilasciano risultati di istintiva purezza celeste.
Attorno a quest’arte che desta curiosità ma che pochi allineano alla primafila museale, s’intrecciano storie politiche e sociali, in particolare sui temi normativi della psichiatria e dei manicomi. Cito solo una vicenda che è un dato esemplare: dal 1959 al 1973, presso il Padiglione Ferri dell’ospedale psichiatrico di Volterra, Fernando Oreste Nannetti ha scolpito un rebus lungo settanta metri; ad oggi una delle opere murali più esoteriche, surreali e concettualmente complesse mai realizzate. In Italia, ricordiamolo, cambiò tutto nel 1978 con la legge 180 voluta da Franco Basaglia, che trasformava gli ospedali psichiatrici in strutture aperte: da quel momento sono proliferati i laboratori creativi che hanno permesse di supportare diversi autori, talvolta con risulati socialmente utili, troppe volte con l’incapacità di raccordare il sistema dell’arte al viaggio dei folli.
Un consiglio cartaceo: il catalogo della mostra (Epopées Celestes, Art Brut dans la Collection Decharme, pp 172, euro 28), oggetto di stimabile eleganza grafica, illumina le biografie esagerate di uomini e donne che sono finiti, a torto o ragione, dentro istituti psichiatrici o luoghi similari. Le vicende familiari e i risultati formali combaciano in tutto, facendo coincidere lo spaziotempo tra idea e risultato, accostando quegli esiti “folli” alle visioni spirituali di Paul Klee, Marcel Duchamp, Max Ernst, Gino De Dominicis, James Lee Byars e altri giganti del pensiero radicale. In fondo, pensandoci bene, tra un autore “libero” e uno ricoverato esiste uno scarto logistico ma la mente, autonoma per ragioni sinaptiche, unisce insiders e outsiders sotto lo stesso cielo utopico della natura creativa.
Epopee umane a Villa Medici: ecco una selezione di coloro che mi hanno folgorato in una mostra dove tutto è necessario, sinergico, tecnicamente straordinario. Anomalo a dirsi ma non trovi una sola opera mediocre; anche dove la forma traballa capisci le ragioni tramite le biografie; e dove vedi un limite scopri nuove soglie, verso anomalie felici che attraversano le certezze degli storici e le ragioni dei critici, unendo la solitudine dei numeri primi alla socialità dei numeri unici.
Adolf Wölfli (1864-1930)
Ha trascorso un lungo periodo rinchiuso in manicomio: e qui ha realizzato una biografia immaginaria di venticinquemila pagine in cui reinventava, a modo suo, lo scibile umano delle arti e dei mestieri, compresa la metafisica della trascendenza che gli avrebbe assicurato l’eternità.
Si sentiva dio, imperatore, santo, genio, in ognuno dei casi alimentava un mito privato che proprio nella chiusura coatta trovava ragione di ossessiva e impenetrabile creazione.
Henry Darger (1892-1973)
Era uno schizofrenico dai mille disagi familiari, finito a lavorare come inserviente in un ospedale di Chicago. Dietro la sua vita silenziosa si nascondeva un patrimonio luminoso: una saga di quindicimila pagine in quindici volumi, illustrata dai suoi ricchi disegni. Vi si raccontava la ribellione delle sorelle Vivian contro il popolo adulto che schiavizzava e maltrattava i bambini.
I traumi infantili che si sublimavano nel racconto parallelo, una dimensione da matrix cognitivo per elaborare la tragedia con un piccolo spostamento semantico, ricreando una distanza da cui tutto risulta credibile.
Janko Domsic (1915-1983)
Cresciuto in povertà ed emarginazione, ha vissuto a lungo nell’angolo di un corridoio di un appartamento parigino. I suoi disegni colorati erano composizioni mistiche che fondevano archetipi esoterici e temi economici, massoneria e finanza, intrecciando simbologie enigmatiche in un costrutto profetico e tecnicamente magnifico.
Paul Humphrey (1931-1999)
Cresciuto tra disagi e umili mestieri, a 57 anni ha smesso di lavorare dopo un pericoloso infarto. Ritrovatosi a vendere bottiglie e lattine per sopravvivere, iniziò a disegnare, partendo dalle foto scolastiche della figlia.
La svolta ossessiva arrivò con l’uso di fotografie di stelle del cinema e della moda, fotocopiate e colorate con modi psicotici e una caratteristica: l’artista chiudeva gli occhi ad ogni volto, quasi a non voler mostrare loro la crudeltà del reale. La cosa che si scoprì dopo la morte è che Humphrey non ebbe figli, inventandosi una famiglia mentale con cui stava tracciando la linea narrativa del suo mondo parallelo.
Masao Obata (1943-2010)
Figlio del nucleare di Hiroshima, ha trascorso diverso tempo in istituti psichiatrici. Qui ha dipinto solo su cartoni di recupero, usando un esclusivo rosso sangue per disegnare figure stilizzate che celebravano le virtù del fumetto e giocavano con l’insensatezza della tragedia atomica.
Alchimie misteriose che capiamo meglio guardando il successo di Yoshitomo Nara, l’artista “libero” che sembra il gemello a colori di questi splendidi cartoni.
Carlo ZInelli (1916-1974)
Uscì devastato dalla guerra e finì diritto in manicomio. Qui, seguendo l’ossessione per il numero quattro, ha realizzato quasi tremila disegni nell’arco di quattordici anni. Un flusso che corredava con le sue scritture, visualizzando figure aliene, animali e altre figure oniriche che poi ordinava secondo l’unico numero per lui possibile.
Circa 180 pezzi perimetrano le sale e dividono gli artisti tra le sei categorie curatoriali. In realtà molte opere potreste spostarle da un tema all’altro, a conferma di un’attitudine patologica che unisce persone così differenti dentro dolori così riscontrabili. Le singole biografie tornano sempre ai traumi infantili, a famiglie devastanti, a storie di abbandono e lutto, a ferite del cuore malamente riparate o a violenze facilmente sedimentate. Radici comuni del dolore e modi diversi di reagire nel quotidiano, arrivando a filtrare il mondo intero dentro una visuale ad imbuto, incuneando ogni sentimento nel parossismo di ossessioni che attanagliano il cervello mentre diventano ossigeno necessario. Arte e Vita al medesimo battito cardiaco, senza aritmie nel rituale ossessivo, senza mai staccare lo sguardo dai rumori e dai silenzi del paesaggio interiore. L’unico paesaggio possibile.