Più di 7mila isole, con spiagge dal fascino unico, foreste gremite di alberi di banani e di cocco e il clima tropicale compongono le Filippine. È quella sorta di paradiso terrestre che ospita il piccolo tarsio (minuscolo primate originario delle Filippine, ndr), delle dimensioni di una mano e dagli occhi enormi, che ricorda, malgrado la sua unicità, i lemuri; ed è anche dimora della tatuatrice più anziana al mondo, Apo Whang-Od, 106 anni, che vive nel villaggio di montagna di Buscalan a circa 15 ore da Manila, la capitale, e che detiene anche il record della persona più anziana ad essere mai stata immortalata sulla copertina di Vogue.
Ma perché raccontiamo tutto questo? Perché quest’anno, ancora una volta, in occasione della 60esima edizione della Biennale di Venezia a cura di Adriano Pedrosa, la Serenissima ha accolto un’infinità di opere e installazioni: tra queste, ce n’è una, realizzata dall’artista Mark Salvatus, classe 1980, che ha trasportato, proprio all’interno del Padiglione Filippine, il sapore e le atmosfere di questa terra, e con queste le origini, le tradizioni e le radici dell’artista.
Il curatore della Biennale, infatti, con il tema “Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere” ha voluto che “ovunque si vada e ovunque ci si trovi si incontreranno sempre degli stranieri: sono/siamo dappertutto”, e che quindi le diverse identità potessero, in qualche modo, raccontare e trasmettere la propria cultura e la proprie radici culturali al pubblico.
Il titolo dell’installazione è “Sa kabila ng tabing lamang sa panahong ito” (Aspettando semplicemente dietro il sipario di quest’epoca) ed è stato preso da un discorso di uno degli eroi nazionali filippini, Hermano Pule, che fondò nel 1832, durante il periodo coloniale dell’Impero spagnolo, “la Cofradía de San José” o “Confraternita di San Giuseppe”. Infatti, a seguito alle pratiche di oppressione e di discriminazioni razziali della chiesa Cattolica nelle Filippine, dove gli ordini religiosi rifiutarono di ammettere come membri i nativi filippini, Pule stabilì il proprio ordine religioso esclusivo per il popolo nativo. Dopo lunghi scontri con la Chiesa, il leader fu catturato, processato e giustiziato nel 1841.
Collocato all’interno dell’Arsenale, il progetto, curato da Carlos Quijon Jr., racchiude un video proiettato al centro della stanza che catapulta il visitatore nel cuore della foresta, diverse sculture in tessuto ed enormi rocce in vetroresina sparse per il padiglione; il tutto viene accompagnato da una serie di suoni che provengono da diverse trombe incastonate all’interno delle rocce: gli strumenti, infatti, risaltano il ricco patrimonio musicale che abbraccia la città natale dell’artista, Lucban.
Abbiamo incontrato l’artista all’interno del padiglione. Ci ha raccontato che “il pubblico, entrando nello spazio, si sente come se stesse andando in una foresta in montagna, una foresta mistica, proprio come se si trovasse sul Monte Banahaw, situato al confine della mia città natale, Lucban”.
“Sono nato e cresciuto lì”, continua l’artista, “e il monte mi ha sempre affascinato, anche perché è un luogo storico ed è stato uno dei primi spazi in cui Pule, assieme alla popolazione locale, iniziò ad organizzare una rivolta contro il dominio spagnolo. Le rocce che ho ricostruito nel Padiglione imitano la conformazione di quelle originarie del Monte Banahaw, e gli strumenti musicali che ho incorporato emettono dei suoni che ne riproducono l’atmosfera: infatti abbiamo registrato questi suoni sul luogo, mentre facevamo le riprese del video”.
L’opera, dunque, affronta non solo il tema del misticismo legato al monte, rendendo omaggio alla sua straordinaria bellezza, ma anche la sua storia, il suo passato, la sua grande importanza durante l’occupazione spagnola delle Filippine e quanto questo luogo abbia cambiato profondamente il paese, diventando la culla della sua identità nazionale.