Ci ha conquistati con l’equilibrio tra denuncia e ironia, tra grazia e cruda sincerità. E ci ha fatto guardare un po’ più in profondità nelle cose della vita. Soprattutto quelle che riguardano le donne. Perché Silvia Levenson non si stanca mai di raccontarci le sue storie di violenza, abuso, sopraffazione, relazioni disfunzionali e infanzia incompresa. Nelle sue sculture in vetro a cera persa è il colore rosa – femminile e rassicurante – ad aprire allo sguardo, a farci credere di avere capito. Poi, però, arrivano le lamette nascoste, i coltelli (magari con sopra la scritta: “E’ stato un raptus”), oppure le bombe a mano issate sopra una torta di nozze al posto degli sposi.
Ora, nel momento in cui inaugura la sua mostra diffusa Per tutta la vita, nel centro storico di Triggiano, nella città metropolitana di Bari, Levenson ci parla di sé, del suo percorso e delle sue battaglie.
Hai voglia di raccontarmi il progetto Per tutta la vita? Come è nato e in cosa consiste?
Per tutta la vita è un progetto curato da Manuela De Leonardis e consiste nell’esposizione delle fotografie dei miei pezzi stampate in grandi dimensioni e installate sulle facciate di alcune case ed edifici pubblici nel centro storico di Triggiano, in provincia di Bari. L’idea è quella di far convivere la gente con il mio lavoro, nello specifico con sedici delle mie sculture. Oltre alla torta nuziale con la bomba a mano ci sono immagini che indagano il mondo dell’infanzia e quanto è accaduto in Argentina durante la dittatura militare, quando 500 bambini sono stati dati in adozione illegale dopo che i militari ne avevano ucciso le madri. Come artista provo a dire ad alta voce quello che normalmente viene taciuto o sussurrato.
In questo momento tu hai diverse mostre in corso: una personale a Torino, una collettiva a Milano e ancora mostre in Francia e in Germania. In particolare a Torino, con un titolo geniale, All you can hit, porti una serie di pezzi che fanno comprendere come gli oggetti della casa nelle relazioni abusanti possano diventare strumenti di morte. Un concetto che in qualche modo esprimeva anche il progetto del 2019 Il luogo più pericoloso (realizzato con tua figlia, Natalia Saurin), dove presentavi una serie di piatti decorati con scritte prese dalle frasi che si usano per giustificare l’uomo violento o dai titoli con cui una certa stampa sminuisce la violenza. Strappi un velo, insomma, sull’omertà che circonda la violenza più subdola, quella che avviene tra le mura domestiche: meno visibile e anche meno denunciata dalle vittime. Secondo te, perché c’è ancora bisogno di sottolinearlo? Perché non si riesce a uscire da questa realtà di negazione e di mascheramento del reale?
Purtroppo ci vogliono tanto tempo, educazione e fiducia per poter cambiare una società patriarcale che da duemila anni tratta le donne come una categoria inferiore. Se pensiamo che in Italia il delitto d’onore è stato eliminato dal codice solo nel 1981, è chiaro che – anche se alcune leggi sono cambiate – ancora siamo lontani da una società dove degli uomini non sentano il bisogno di possesso e controllo, quello che nei casi più gravi porta alla violenza. Nella mostra All you can hit, curata da Margaret Sgarra, ricreo una cucina rosa con coltelli, piatti, teiere e poi specchi che alludono alle tensioni e alla violenza che troppo spesso, nel nome di una concezione malata dell’amore, entra nelle nostre case.
Come artista mi sento chiamata ad agire. Sono consapevole che difficilmente l’arte potrà cambiare questa società, forse, però, può provare a modificare lo sguardo di chi osserva.
Una delle indagini che trovo più interessanti, rispetto al tuo lavoro, è quella sull’infanzia. Che non tratta solo dell’infanzia abusata (delizioso e agghiacciante il micro-servizio di tazzine con la scritta “Di questo non si parla”), ma anche dell’infanzia come luogo della confusione e del dubbio. E della stranezza, che viene male accettata soprattutto se ad essere strane sono le bambine, come spieghi molto bene con la tua serie delle Strange little girls, bimbe con la testa di animale. Credi che oggi, ancora, esistano dei problemi specifici rispetto all’educazione dei bambini e delle bambine che sono responsabili delle problematiche di genere a cui assistiamo quotidianamente?
Nel mio lavoro l’infanzia non è l’età dell’oro da guardare con nostalgia, ma un periodo in cui siamo stati felici o problematici. Come lo siamo anche adesso. Solo che questa consapevolezza dell’essere confusi o avere dei dubbi entra in conflitto con una società votata al successo, all’essere performanti e al bisogno di controllo.
Noi artisti viviamo un po’ nella nostra bolla, dove non rispondere ai canoni della società è la regola. Ma non è così per la maggior parte di bambini e adolescenti, specialmente se vivono nelle periferie o abitano in piccoli paesi. Mi ricordo alcuni compagni di scuola dei miei figli che chiedevano loro se non avessero paura di avere una mamma che faceva coltelli di vetro…. Per loro anch’io ero strana, perché la diversità continua a vedersi come qualcosa di negativo o allarmante.
Tu sei nata in Argentina e sei dovuta fuggire a una dittatura. Quanto questo vissuto ha influenzato il tuo lavoro e anche il tuo modo di guardare ai diritti dei più deboli, alle sopraffazioni e alle ingiustizie?
Sicuramente tanto. Forse alla fine tutti siamo sopravvissuti a qualche naufragio. Ma quello che ho vissuto durante la dittatura nel mio paese mi ha trasformata. E ho avuto bisogno di tempo per parlarne nei miei lavori. Non volevo essere una vittima, non volevo mostrare solo la parte della sofferenza. Con il tempo ho capito che tutte le argentine e gli argentini sono stati vittime della dittatura militare: i miei amici scomparsi, i miei famigliari assassinati, i 30.000 desaparecidos. Ma oltre alla repressione, ho visto anche le Madri e le Nonne de Plaza Mayo: donne capaci di lottare per la verità e la giustizia con decisione ed energia incredibili e questa è stata l’altra faccia della medaglia. Ho imparato tanto da quelle donne cocciute e indomite.
Uno dei lati più affascinanti del tuo lavoro è senz’altro la tua capacità di creare un cortocircuito tra l’orrore e la grazia, tra lo schiaffo e la carezza. La carezza – estetica – che riservi allo spettatore è la gradevolezza della forma, la scelta di soggetti rassicuranti (una torta nuziale, un servizio da tè), e anche la predominanza del colore rosa; lo schiaffo è nel messaggio. Ci racconti perché hai scelto questa strada e, magari, la genesi di qualche tua scultura che ritieni particolarmente significativa?
Mi piace la frase “lo schiaffo è nel messaggio”. La maggior parte del mio lavoro è realizzato in vetro, un materiale che da sempre è stato usato nelle arti decorative e nell’artigianato, un materiale che in genere è considerato portatore di bellezza. Io uso quella bellezza come un amo, come un modo di rapportarmi con chi guarda attraverso l’ironia e l’incoerenza.
Sono sempre stata interessata alle situazioni in cui ci sono delle tensioni evidenti ma che la famiglia, la società o la coppia cercano di tenere sotto controllo facendo finta di niente. Nel 2005 ho iniziato a usare il rosa perché per me rappresentava quel tentativo di dare una mano di colore su una realtà violenta o triste, rassicurando tutti con un sorriso.
Uno dei miei pezzi recenti di cui sono molto soddisfatta è il servizio da tè rivestito di spine. Non parla di violenza, ma della difficoltà che possiamo sperimentare nel quotidiano, quando perfino prendere in mano una tazza di tè può sembrare difficile. Per me è come condividere la mia visione di ciò che chiamiamo realtà.
Abbiamo avuto, nel 2022, una Biennale in cui il 90% degli artisti invitati alla mostra principale erano donne, e oggi viviamo una Biennale in cui si cerca, attraverso l’inserimento di quelli che sono stati outsider, di riparare ai torti. E poi fioccano ovunque mostre dedicate alle donne, da Berthe Morisot a Helen Frankenthaler. Tu credi che ci stiamo avviando a una nuova era di parità, almeno nell’arte? O è solo una moda? La tua sensazione da artista e da donna è di sentirti più a tuo agio davvero, oggi?
E’ vero che nel 2022 il 90 % delle artiste erano donne, però questo non mi ha fatto dimenticare che nel passato le artiste donne alla Biennale sono state il 20 -30 % (in realtà molte meno, ndr: vedi articolo Questa sarà la Biennale “no gender”, ma che fatica arrivarci, 7 marzo 2024). Sulla Biennale del 2022 mi facevano sorridere i commenti di alcuni artisti che mi dicevano: “Va bene che ci siano tante donne, ma la qualità?”, come se solo gli uomini potessero garantire un livello alto nell’arte contemporanea. A me non piacciono le quote rosa e in passato ho rinunciato a partecipare a mostre dedicate solo alle artiste donne, ma adesso non vedo un’alternativa. Abbiamo bisogno di più spazio ed è necessario anche che i musei, nei prossimi anni, riescano a riequilibrare le collezioni con le artiste donne. Credo che tutto questo sia positivo. Anche se in questo momento tutto si trasforma in moda, in marketing.
Ancora non ho visitato la Biennale di Pedrosa, ma sono entusiasta di ciò che ho letto. Io non voglio fare parte di un mondo dell’arte dove per entrare le persone debbano avere una password. Credo che noi artisti con le nostre opere creiamo dei ponti, degli spazi che chi guarda può attraversare per entrare in contatto con le nostre esperienze. Questo per me è il mistero dell’arte.