Robert Gligorov: “Fare arte? È un’esigenza vitale per ingannare la psiche e la paura della morte”

“Sono un ricercatore della mia identità di persona, di intellettuale e di corpo artistico sociale attivo nel mio tempo” Con queste parole Robert Gligorov esprime il suo “essere” artista e uomo, mai domo, aperto alla continua ricerca espressiva e proiettato costantemente verso il futuro.“Uno nessuno e centomila”: artista visivo, musicista, produttore, atleta, fotografo, illustratore, chimico, Gligorov sembra avere molteplici identità, plurime facoltà realizzative ed interpretative, con un immaginario che spazia su più fronti, da quello teatrale, a quello sociale, alla citazione, alla provocazione, non finalizzata semplicemente allo scandalo, ma volta a “smuovere le menti”. Una passione, quella per l’arte che, come ci racconta lo stesso artista, entra nella vita stessa: “fare arte non ha orari: è un’esigenza vitale per ingannare la psiche, ingannare la paura della morte ed evitare un vuoto esistenziale con cui fare i conti. Ho sempre temuto il silenzio e i momenti morti”.

Buongiorno Robert, inizierei dalla fine, ossia chiedendoti della tua mostra in crrso, intitolata: Backbone Crossing Ratio, che si è aperta da poco a Todi presso la Sala Delle Pietre del Palazzo del Popolo di Todi. Il progetto è promosso dal Comune di Todi e prodotto in partnership con la Galleria Giampaolo Abbondio. Ci spiegheresti di cosa si tratta?

È da un po’ che si stava pensando e forse ripensando ad una mia personale a Todi; in un primo momento avrei dovuto esporre in esterno nella piazza principale e un po’ ovunque; poi per una serie di problematiche la cosa è stata rinviata e man mano che il tempo passava cambiavano le idee adeguandosi a spazio e luogo. Il Comune ha proposto la Sala delle Pietre, una delle loro sale più prestigiose per un mio intervento e qui il progetto è di nuovo cambiato. Il making off della mia personale è forse più ricco di spunti e idee che forse la mostra stessa. Non ho un luogo ideale dove esporre, sono molto attratto dalla sfida di uno spazio in esterno per mettermi alla prova e certamente anche gli interni mi sollecitano nella creatività. Forse il luogo meno stimolante è una galleria.

La prima cosa che colpisce in questi paesi medievali è la loro sontuosità e volume d’aria. Sono enormi, maestosi e carichi di storia. Questa cosa aiuta molto un artista contemporaneo perché il contrasto tra il linguaggio di oggi e il passato fa risaltare l’opera. Abbiamo tenuto nascosta l’idea fino all’ultimo perché le idee, a mio avviso, raccontate o documentate sui mezzi d’informazione, tolgono quell’aspetto primigenio che un’opera dovrebbe avere ; la sorpresa, l’inaspettato, il cortocircuito o come si dice nel cinema il twist. Sono fortunato perché Giampaolo Abbondio con cui collaboro da oltre 20 anni , mi ha sempre dato carta bianca senza pormi limiti o ammiccamenti al mercato e questo per un artista situazionista come me è la condizione base.

Senza rivelarti anche in questa situazione l’idea la potrei sintetizzare nei termini in cui il pensiero immagina e chi ha la possibilità di visitare la mostra “Backbone Crossing Ratio (aperta fino al 4 luglio, ndr) ha un privilegio di esclusività dell’esperienza. Anche la parte esterna del Palazzo è parte integrante della mostra e ti accenno all’idea. Ho scolpito delle pepite cromate/dorate con diverse forme geometriche e queste pepite sono state incastonate sulle 3 pareti esterne del Palazzo del Popolo.

Camminando nella Piazza vieni catturato da uno scintillìo che si spegne e si accende a seconda del riflesso solare nei vari momenti della giornata; certe pepite e certi riflessi si attivano come costellazioni di stelle che si accendono e che muoiono. Questa installazione silente ma che ti cattura e ruba lo sguardo valorizza molto la struttura. Non hai idea di essere di fronte ad un’opera d’arte ma di fronte a qualcosa che prima non avevi visto e che ti incuriosisce. Questo è quello che intendo per fare arte oggi: l’opera e il luogo convivono in una giunta propositiva e stimolante e non decorativa forzata o ancor peggio fuori luogo.

Robert Gligorov Backbone Crossing Ratio Palazzo del Popolo esterno con pepite particolare

Sul volume della Sala delle Pietre, data la grandezza e l’altezza (profonda 30m e alta 15m) mi è stata subito suggerita dalla mia testa l’idea di proporre un’esperienza. Un percorso iniziatico, meditativo più che un oggetto tout-court artistico. Tende enormi in un numero infinito e dopo un percorso obbligato si accede ad uno spazio/dimensione metafisico, un luogo più intimo dove il riflesso della nostra immagine e dell’opera ci mette a confronto o a disagio nel nostro senso emotivo per cui siamo ciò che siamo /esistiamo.

Credo che il compito dell’arte sia quello di coinvolgere il mondo non tanto in un’ammirazione del fare dell’autore ma nel sentirsi coinvolti nel processo della stessa mostra e migliorare la percezione che si ha della realtà e togliere per quanto possibile il velo che abbiamo dalla nascita davanti ai nostri occhi.

La tua narrazione espressiva ha sempre spaziato da molteplici linguaggi e medium: dalla performance, alla pittura, alla fotografia, all’installazione, al video, alla musica. Con quali di queste espressioni ti senti maggiormente in sintonia e tu che artista ti consideri?

Per molti anni ho avuto sempre un po’ di disagio nel definirmi artista. Ma pensandoci meglio è difficile definire un operatore dell’immagine o di idee nel mondo dell’arte. Sembra il termine, sostantivo più idoneo/immediato. Quindi chiedo scusa per l’arroganza ma questa sensazione di cautela non ce l’ho più. Oggi all’età di 64 anni mi sento sufficientemente spudorato per definirmi artista anche perché, da quanto mi ricordo di me stesso, sette giorni su sette io non faccio altro che creare oggetti, opere, disegni, modellini… e senza avere un committente. Se vengo invitato per una mostra/evento ecco che cambio completamente modalità e tutto il mio fare artigianale quotidiano viene meno. Vengono coinvolti tecnici, scenografici, artisti, musicisti, scrittori, curatori… tutti quanti coinvolti in un unico progetto che parte da una mia idea che poi diventa di tutti, perché è un lavoro collettivo ed anch’io divento spettatore. La differenza tra un grande artista e uno mediocre sta in due cose: la prima è la scelta su che cosa puntare e la seconda la cura dei dettagli.

Penso di non essere un artista autoreferenziale ma, come dice Platone, alla fine non inventiamo nulla che è tipico, ma semplicemente ricordiamo un’idea o discorso che già conoscevamo. Quindi attingiamo da un bacino il nostro corollario di idee che poi faranno il DNA del nostro corpo di artista.

Robert Gligorov Pizza Tatoo

Quando un quadro, un attore, una canzone o uno sport ci piacciono, è perché fanno parte di noi e quello che ci somiglia lo prendiamo. Sono un ricercatore della mia identità di persona, di intellettuale e di corpo artistico sociale attivo nel mio tempo. Non ho un media ideale, sono tutti nelle mie corde e funzionali ai miei progetti.

Nella tua vita prima di dedicarti prevalentemente all’arte visiva, hai fatto l’atleta, l’attore per vari film (Deliria di Soavi, Murder Rock di Fulci, ecc.) il chimico, l’illustratore, il fotografo, hai realizzato numerose copertine per CD di musicisti come i Bluvertigo, che hai scoperto e di cui sei stato anche produttore, Gino Paoli, Zucchero e Sting. Presumo siano state tutte esperienze importanti ed interessanti, ma cosa ti ha spinto a differenziare la tua attività su vari fronti invece di concentrarla solo su aspetto creativo?

Ho avuto la fortuna di aver viaggiato molto da bambino e di aver vissuto in realtà sociali molto diverse. Dal mio paese socialista (ex Jugoslavia) che all’epoca era un regime con le sue regole rigide per poi confrontarmi con la cultura occidentale di vari paesi. Questa possibilità mi ha messo di fronte a degli ostacoli secondo il periodo della mia vita sempre diversi, stimolanti e sfide per autodeterminarmi. Soprattutto nello sport. Sono stato da sempre un’atleta fanatico della disciplina tra atletica leggera e ginnastica per poi approdare ai tuffi dalla piattaforma di 10 metri. Quel periodo, delle piscine mi ha dato conforto e anche un ruolo nella società.

Nella disciplina artistica, guardando con gli occhi di oggi, mi rendo conto che non era tanto la gara o il consenso l’obiettivo finale, ma era la costruzione di un atleta agonista. Questo processo è molto simile alla costruzione di un’identità artistica, solo che la materia da plasmare era diversa: la mia psiche con il mio corpo. Di questo non mi rendevo conto allora. Attorno ai 16 anni è esplosa in me la curiosità e la voglia di conoscere e frequentare il mondo del fumetto. Come nei tuffi mi sono lanciato, anima e corpo in quel mondo. Compravo fumetti, facevo viaggi per conoscere disegnatori, copiavo i migliori disegnatori di sempre, prima come lettore, poi come imitatore e poi come disegnatore, una nuova sfida mi si parava davanti: disegnare. Ero negato, nonostante sentissi di non esserlo.

Copertina del libro <em>The Illustrated Lyrics<em>

Con la mia persistenza e disciplina e attitudine sono diventato un ottimo disegnatore, ho pubblicato vari albi con Albin Michel in Francia, il libro The Illustrated Lyrics con Sting edito da Rizzoli in Italia e I.R.SBooks nel mondo; sono diventato un professionista guadagnandomi da vivere con il fumetto. Da lì in poi non mi sono mai fermato nello studiare, perfezionare il disegno, la pittura e la scultura e così via. Anche in questo caso, oggi lo vedo meglio, non era il fumetto che mi interessava, mi interessava il media e sentivo di poter essere un protagonista.

Lo sport passava in secondo piano (solo per un certo periodo, anche perché dopo i 40 anni è esploso un altro amore nella mia vita ed è la passione per il tennis). Si prospettava anche una possibilità professionale nel mondo del disegno, dell’illustrazione, ma da li a diventare un professionista non è facile, avrei tanti aneddoti da raccontare ma non adesso.

Come un Bamby che si perde nella foresta annusando fiori, rincorrendo farfalle, tuffandosi in acque fresche, mangiando more, giocando con compagni incontrati per strada mi sono imbattuto nel mondo del cinema e di nuovo, io come protagonista, non più come atleta ma come maschera per interpretare un ruolo. Anche in questo caso mi sono tuffato con la massima convinzione di voler essere un attore. Ho studiato recitazione, ballo, la storia del cinema e come dicevo prima solo oggi mi rendo conto che mi interessava il mezzo, il processo creativo dell’attore, non essere attore. Tutti questi mondi mi hanno dato molta disciplina e analisi; io come uno studente assetato di conoscenza ho assorbito il più possibile.

Chiudo il periodo romano, lascio Roma per Milano visto che nella mia indole sono stato sempre un nomade, le cose troppo ripetitive, stanziali mi annoiano. Milano con l’editoria, il mondo discografico e con l’Europa più vicina, mi dava un raggio d’azione più ampio.

Ogni passaggio che affrontavo nel mondo creativo era una conseguenza delle esperienze precedenti. Da disegnatore sono passato ad essere fotografo professionista, promotore e produttore di gruppi e cantanti perché la musica e i videoclip mi hanno sempre attratto, avevano molta affinità con mio linguaggio, poi negli anni Ottanta esplodeva il linguaggio audiovisivo della musica, è stata una rivoluzione per i creativi. Come dici nella tua domanda, ho collaborato con molte personalità della musica italiana e internazionale destreggiandomi con naturalezza ed abilità in questi contesti. Però ogni novità invecchiava velocemente nella mia testa e più collaboravo con editori, case discografiche e cantanti e più mi rendevo conto che c’era qualcosa che stava emergendo, un individuo, un’entità allora a me sconosciuta, che voleva nascere ed emergere per lasciare campo libero al mio daimon.

L’arte, o il contesto artistico erano ancora lontani dai miei interessi. Ma ho una data precisa in cui ricordo di aver fatto una scelta assoluta, la più importante della mia vita: il 1996. Non so perché, non so come mai, ma in quell’anno ho chiuso definitivamente con il mondo commerciale dell’industria cinematografica e musicale e i miei interessi sono stati totalmente deviati dal signor Robert Gligorov appena nato.

Insieme al mio nuovo amico e compagno d’avventure Carlo Benvenuto, abbiamo preso uno studio e cominciato a operare in un modo sempre più mirato e affine all’arte. Il confronto con le varie esperienze di artisti e di scenari in atto da tempo, a mia insaputa, nel mondo dell’arte mi hanno aperto una porta dopo un’altra di possibilità e questo media mi sfidava e mi stimolava. La tecnologia digitale all’epoca era poca, c’era il Paint-box (preistoria), la nuova tecnologia mi ha attratto da subito. Perché l’arte si è sempre evoluta nella novità grazie alla tecnica. Dall’affresco si passa alla tela, da quando i colori si potevano acquistare e non necessariamente più dover realizzare, da quando è nato il proiettore, da quando è nata, soprattutto la fotografia. Grazie a questa invenzione il mondo dell’arte cambia volto e senso e le nuove tecnologie come il digitale o oggi la A.I. non sono limitativi per l’artista, anzi sono un aspetto dell’evoluzione che forse l’artista maturo non riesce a domare o controllare ma le nuove generazioni lo utilizzano come un mezzo di supporto.

Mi è venuto naturale dare spazio alla tecnologia come la fotografia, piuttosto che la tanto adorata pittura (che ho sempre praticato come hobby e rare volte come oggetto da esporre). Ho sempre ascoltato il mio tempo: forse l’artista quando è troppo sul ragionamento, senso del fare, forse è anche un po’ troppo avanti per il suo tempo e verrà codificato solo in seguito. 

Ad un certo momento negli anni Novanta hai preferito concentrarti prevalentemente sull’arte visiva, prediligendo a mio avviso una ricerca che si muove in quella sottile linea di confine tra realtà e finzione, conduci lo spettatore in una dimensione, spesso molto forte, destabilizzante e a volte scioccante, che non risparmia certo anche la provocazione. Perché queste scelte?

Io opero, faccio, poi farò i conti con le opinioni e poi ovviamente, maturando, con gli anni hai una percezione più lucida del tuo fare arte. Non ho mai pensato a fare arte. Ho sempre considerato la mia giornata, la mia vita, un tutt’uno. Fare arte non ha orari: è un’esigenza vitale per ingannare la psiche, ingannare la paura della morte ed evitare un vuoto esistenziale con cui fare i conti. Ho sempre temuto il silenzio e i momenti morti.

Un progetto, un impegno, una devozione religiosa verso il media mi ha sempre dato forte motivazioni e devo dire che questa sensazione non si è ancora esaurita. Il mio immaginario che va dal teatrale al citazionismo e al sociale si è sempre intrecciato nella mia opera. Forse le mie origini slave hanno inciso sulla mia modalità espressiva. Questa cosa la vedo anche in Marina Abramovic: sono a volte performance estreme ma hanno sempre una messinscena come una fiction; non per questo meno vera, se poi aggiungiamo il digitale, come accennavo prima, il tutto si amalgama in un barocchismo contemporaneo. Ho sempre fatto fatica a sposare un’intuizione, o come si dice uno stile per la riconoscibilità, non riesco a riprendere opere del passato. È come se si fossero chiuse delle porte con quell’esperienza. Quest’aspetto fa parte di me e della mia modalità. Da sempre ritengo che l’artista è tale se ha un’intuizione interessante, forte ed è la sua modalità nel proporla che lo rende unico. Quindi, un’idea acquista senso se proposta nel tempo in cui si genera.

Allora posso dividere il mio fare arte in blocchi: il primo blocco è una sorta di autoanalisi e faccia-a-faccia con le mie pulsioni. La seconda quella in cui apro l’obiettivo in un grandangolare e mi occupo del mondo che abito. La terza fase è il sociale e l’artista come soggetto politico in cui lo stesso avventore dell’arte è coinvolto non soltanto con una percezione frontale (come se ci fosse un vetro tra i due soggetti). Un’arte che abita lo spazio ospite in cui chi interagisce ne fa parte, e la mia ultima mostra ne è il risultato.

Anche l’uomo e soprattutto il tuo corpo divengono molto spesso protagonisti; un soggetto in continuo mutare, in continuo divenire, che si trasforma e cambia la propria identità ed il proprio corpo. Cosa ti porta in questa direzione?

Come accennavo prima da atleta, da attore e da ideatore sono sempre stato protagonista autoreferente e quindi era inevitabile essere il soggetto principale in molte mie opere. La metamorfosi è un concept che mi ha sempre affascinato; evolversi da uno stato a altro stato, da una forma ad altra forma; fino a che questo processo è in atto ho ancora una speranza di essere, sì mutato, cambiato, ma pur sempre presente, vivo.

Credo alla teoria che il tempo non esiste e che la percezione della realtà che abbiamo siano soltanto tante fotografie in sequenza che scrollano rapidamente ed abbiano l’effetto del movimento. Forse il tempo non va né in avanti né all’indietro ma è solo ora, il nunc. Le fotografie, i video e i documenti ci dicono che c’è stato qualcosa in un passato ma può essere un processo che esula dal tempo. Nella mutazione, nella metamorfosi, nell’empatia, nella simbiosi sono sempre stato affascinato e ho dedicato la mia ricerca al fattore umano.

L’astrattismo, il minimalismo e tutte le forme d’arte nella negazione dell’opera e del soggetto-oggetto opera sono provocazioni fine a se stesse e non mi danno quel mistero fondamentale, necessario per dedicare il mio tempo per l’arte. Ho dei punti fermi nelle mie proposte che sono gli animali, il rapporto uomo/animale, il rapporto donna/uomo, la sessualità, la storia e il disegnare uno scenario futuro di questa realtà. Non so se l’artista ha mai inciso sullo sviluppo dell’uomo, sulla storia o sensibilizzato l’umanità su problemi come il clima e su tutte le lotte di genere in atto tutt’ora. Bisogna capire se l’arte arriva sempre dopo a cose fatte o è parte attiva della società.  

Oltre alle tematiche politiche e di attualità ti interessi molto a quelle ambientali e sociali, appunto anche al mondo animale. Ritieni sia giunto il momento che l’uomo modifichi il suo stile di vita e divenga può sensibile e rispettoso verso il mondo che in fin dei conti lo ospita?

Sì, il mondo è basato sull’economia. Tutto ciò che genera profitto ha senso e fa parte della nostra realtà: pare che non esista un sistema alternativo. L’arte al potere, la fantasia che regola la società inevitabilmente porterebbe a una catastrofe umanitaria. La democrazia è una pessima teoria ma è la migliore che c’è.

Gli animali, in questo ingranaggio dell’industria, pagano un prezzo altissimo da sempre, è una crudeltà sistematica di cui siamo tutti responsabili, non siamo ancora in grado di fermarla e questo pianeta, per quanto dia delle possibilità uniche, ha questo risvolto spietato nei confronti non solo degli animali ma anche dell’essere umano stesso. Sono fermamente convinto che potremmo sopravvivere tranquillamente senza lo sfruttamento e l’uccisione di così tanti esseri. Fintanto che un’attivista urla il suo pensiero di giustizia sociale vuol dire che siamo ancora nella preistoria della nostra evoluzione e civilizzazione. 

Nel 2024 cosa significa essere un artista?

Come accennavo prima la definizione è un po’ fuori luogo ma se dobbiamo prendere un titolo ed essere all’altezza dell’impresa bisogna essere un po’ matti, visionari, sognatori, poeti e viaggiatori. Essere artista oggi soprattutto per le nuove generazioni è un processo; molti provano a inserirsi per far parte di un sistema che sdogani il loro fare arte, se questo non dovesse accadere per molti sarebbe una scommessa o battaglia persa e difficile da sostenere nelle regole del nostro tempo. Sicuramente bisogna essere realisti e avere la capacità di organizzare vari piani con cui fare i conti. Spesso a un nuovo artista, se ha un lavoro interessante, viene data una visibilità per un certo periodo e poi è come se fosse bruciato. Si ha sempre questa isteria della novità e questa ricerca di costante novità o come è di moda favorire in questi anni un arte più etnica, quella cinese, quella africana come se contasse un’appartenenza, ma è solo una moda, una tendenza. Il vero artista non si deve mettere nella condizione di scalare un sistema ma di essere come un osservatore, un operatore che indaga sulla verità o l’amore per la verità, essere sempre presente e sul pezzo. Che fare? è la domanda: il fare stesso è la risposta.

Nel 2014 hai creato anche una rivista, Hystery, che se non sbaglio ha terminato nel 2017. In che cosa consisteva questo progetto editoriale?

Hystery è un mio diario di bordo. Sono sempre stato attratto dall’editoria, dalla fotografia e tanti linguaggi mediatici e Hystery ha permesso di dare sfogo alla mia creatività e competenza che ho costruito negli anni. La grafica, le fotografie e i vari testi fanno parte di un mio scrigno privato da dove ho attinto idee, progetti che altrimenti non avrei mai realizzato. Come una sorta di mondo alla Walt Disney in cui l’artista editore e direttore gestisce e formula proposte artistiche anche con nick-name di artisti inesistenti. Alias tutti Gligorov.

Mi sono preso solo una pausa per impegni sportivi e ho lo scrigno strabordante di nuove idee che presto saranno pubblicate.

Possiamo dire, che sei sempre stato una “voce fuori dal coro”, nel senso che hai volutamente scelto di rimanere un artista indipendente e con un linguaggio espressivo molto eterogeneo, che non ha mai voluto seguire le mode del momento o scendere a compromessi. Nel mondo di oggi essere indipendenti, non essere “incasellabili”, accostabili ad “una parte”, spesso crea dei problemi, in quanto la libertà di pensiero fa paura, perché produce un cortocircuito nel sistema e lo destabilizza. Rivendichi queste tue scelte, ti hanno creato dei limiti o penalizzato dal punto di vista del tuo percorso artistico?

Sì, devo dire che per certi motivi ammiro molto chi fa squadra: curatore, artista, gallerista, collezionista che nel tempo si sono mantenuti uniti. Ci sono dei percorsi prestabiliti per un artista: liceo artistico, accademia, docente, curatore, galleria e così via, questa è un po’ una prassi in cui anche spesso il lavoro è pilotato per una collocazione idonea al sistema. Essendo io da sempre un trasversale ed essendomi sempre sentito un self made man, non mi è mai passato per la testa di bussare a delle porte anche in modo indiretto, ho sempre avuto una mentalità anche curatoriale sui miei progetti. Il mio primo progetto nel mondo dell’arte è del 1997 e consisteva nel portare l’opera d’arte fuori dalle gallerie: spazi pubblici come stazioni dei treni, le librerie, i megastore, gli aeroporti… allora era inedita, oggi è normale. Già da allora ho cercato sponsor per il progetto CO (titolo) poi sponsorizzato in esclusiva da Philip Morris e queste mostre le organizzavo insieme a Carlo Benvenuto, Massimo De Carlo e Gianni Romano e poi si sono susseguiti altri curatori (una tra questi Cristiana Perrella). Già da allora ero un artista-imprenditore. Chiusa quella parentesi, ho continuato con questa modalità e penso che la situazione ideale per un artista sia fare squadra e mettere in scena i propri progetti. Forse non esiste un sistema arte, ma potrebbe esistere un alibi per non agire.

L’idea è sempre partita da me, ho sempre avuto sotto controllo tutti coloro con cui collaboravo, ero così anche quando producevo gruppi musicali, per esempio i Bluvertigo, che proposi al sistema dell’industria musicale, ma nessuno era interessato, allora ho deciso di aprire un’etichetta insieme a un socio, “Le Cave”. Con questa etichetta cominciammo a produrre vari cantanti e gruppi poi distribuiti dalle Major. Avevo il controllo totale di tutto il progetto. Nell’arte ho semplicemente applicato questa modalità che fa parte del mio modo di essere. Non so come gli altri mi leggono, quello che a me interessa è collaborare soprattutto con chi ama il mio lavoro. Amo chi mi ama.  

Attualmente stai dedicando molte energie al tennis: lo consideri “solo” un gioco, uno sport o è anche un progetto performativo?

Bravo! La cosa era nata 24 anni fa e ne parlai con Gianni Romano come progetto artistico. Può una persona normale dedicare tutta la sua energia, il tempo, allenarsi con vari coach e diventare uno sportivo competitivo come i top players? Mi sono lanciato in quest’impresa artistica, sportiva impossibile per vedere non soltanto se una performance fine a se stessa riuscisse oppure no. Un progetto in un’ultima stagione di giovinezza nel vedere se estremizzando ogni dettaglio della disciplina potessi diventare un tennista professionista (nel passato il tennis non mi aveva mai interessato). Ci sono le classifiche FIT e ranking internazionali ATP. Ho lavorato sette giorni su sette, ho avuto la fortuna di avere un grandissimo maestro come Aldo Mei (campione del passato) e mi sono allenato con un giovane campione (Alberto Brizzi); ho vinto molti tornei da dilettante, ma il passo tra l’amatoriale il professionistico è impossibile. È stato un viaggio-progetto che mi ha molto arricchito. Non lo ritengo un progetto fallito perché nella filosofia Gligorov considero il viaggio, l’allenamento la parte più bella e l’obiettivo finale è una conseguenza, un premio, ma non per questo ha un valore assoluto.

Nel frattempo sono diventato allenatore di mia figlia Mila, che a differenza di me è un talento naturale e ha una facilità nell’esecuzione superiore a chi ottiene un certo livello con tanto lavoro. Questa mia storia-performance nel tennis in cui il palcoscenico è il campo non è ancora finita e sicuramente il mio obiettivo è finalizzarlo in un’opera monumentale. Insieme all’allenamento e ai tornei in questi anni ho realizzato moltissimi studi, disegni, modellini proprio sul tennis e sulla fatica psico fisica dello sportivo. 

Ci sono idee o progetti che stai realizzando o che vorresti realizzare?

Sì certo. L’artista, lo scrittore e il musicista credo che nella loro testa accarezzino sempre l’idea del loro capolavoro: anche se uno ha venduto 100milioni di dischi come Sting, conoscendolo so che nel suo prossimo progetto mira a superarsi. Questo vale anche per me. Come se tutto quello che ho realizzato e le mostre che ho fatto (saranno più di 500 mostre tra collettive e personali in questi ultimi 30 anni) è come se fossero un tentativo di capolavoro. Sono sicuro come quando volevo disegnare i fumetti e non ne ero capace, di poter mettere in scena la mia opera assoluta. Non amo però anticipare i progetti come dicevo prima, non perché porti male, ma perché rivelarne anche soltanto un aspetto è come se si svuotasse di energia.

Grazie Robert per questa conversazione, e che l’arte sia sempre con te!

E con il tuo spirito.

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