È sempre un po’ più difficile, per le donne. Anche quando negli stereotipi femminili proprio non ci vogliono stare. Anche quando si muovono in un ambiente – quello dell’arte – che da fuori sembra tanto più avanti e tanto più trasgressivo. Oggi, con una Biennale di Venezia che spalanca le porte agli outsiders – e a due anni da un’altra Biennale che ha dato finalmente spazio anche alle donne fuori dai binari – può sembrare incredibile, ma nel passato essere donna e amare una donna, oppure non riconoscersi soltanto in quel ruolo, era tutta un’altra storia. Pure nel rutilante mondo del genio e della sregolatezza. Eppure le ragazze ribelli ce l’hanno fatta. Aprendo strade.
Anche il trasgressivo Dada e il libero Surrealismo, se ci pensiamo, hanno come capo uno dei più smaglianti esponenti del patriarcato maschilista: André Breton, uno che considera le donne poco più che soprammobili. E immaginatevi come lui può vedere una ragazzaccia che usa il collage con la grazia di un asfaltatore di autostrade e che nel corso della sua esistenza convive per un decennio con una poetessa olandese per poi lasciarla e sposare un pianista. Eppure Hanna Höch (questo il nome della ragazzaccia) va avanti a testa alta e imprime una traccia indelebile nell’arte degli anni ruggenti.
Il suo uso del collage sembra anticipare la poesia visiva delle seconde avanguardie e con quello lei racconta la sua versione della storia (quella con la S maiuscola a cui, da tedesca, è particolarmente sensibile). Il suo collage forse più celebre, Taglio col coltello da cucina dada attraverso l’ultima era germanica della cultura del ventre da birra di Weimar, non è solo una condanna della guerra – tra ingranaggi, macchine belliche, ufficiali in alta uniforme e ballerine – ma svela anche altri intenti, mostrando, per esempio, una mappa dell’Europa dove sono evidenziati i pochi paesi in cui le donne possono già votare. La sua lucida visione sul futuro si spinge anche oltre con i suoi corpi ibridi: collage dove torsi di donna si fondono a maschere primitive o dove uomini baffuti sfoggiano soffici seni femminili.
La più potente anticipatrice della cultura queer, però, è Claude Cahun, che per di più porta sulle spalle il fardello di essere nata ebrea in un periodo – l’ultima decade dell’Ottocento – nel quale questa cosa si sarebbe rivelata molto problematica. Figlia dell’alta borghesia intellettuale francese vede la mamma sparire in un ospedale psichiatrico quando è ancora piccola (una donna depressa e instabile non è la moglie più adatta nel milieu del padre, direttore e proprietario di un giornale trendy come Le phare de la Loire).
Fortuna vuole, però, che la nuova moglie di papà porti con sé una figlia, Suzanne Malherbe, che diventerà la musa e il grande amore di Claude. Che non si chiama ancora così, in realtà: per il momento all’anagrafe lei è Lucy Renée Mathilde Schwob. Tra la futura artista e la sorellastra esplode una relazione in cui amore, sesso, fiducia, complicità e creatività si rivelano nodali. Prima di tutto Lucy cambia nome: Claude lo sceglie perché invariato al maschile e al femminile, Cahun perché è il cognome della adorata nonna, quella che di fatto l’ha allevata. Poi comincia una carriera creativa multiforme, dove scrittura, teatro e fotografia si intrecciano.
Il tema centrale è sempre quello dell’identità, che Cahun sviluppa con una sottigliezza molto avanti sui tempi. Con i capelli rasati a zero – a volte tinti di rosa o d’oro – e il naso aggressivo messo in evidenza dalla posa, l’artista è la protagonista di centinaia di scatti en travesti, uomo e donna al tempo stesso, a volte riflessa da uno specchio, a volte sdoppiata da una seconda immagine di sé o da una maschera, qualche volta insieme alla sua Suzanne (anche lei, nel frattempo, ha cambiato nome ed è diventata Marcel Moore); scatti che se si possono imparentare all’estetica elegante di Man Ray, mettono sempre al primo posto la narrazione: una narrazione dove si rinnega l’identificazione in un ruolo di genere predefinito.
È quasi sua coetanea Djuna Barnes, che sebbene sia più conosciuta come scrittrice (spettacolare il suo romanzo onirico-visionario La foresta della notte, resoconto disperato della tragica storia d’amore con la scultrice Thelma Wood) ha usato l’illustrazione come un’arma – affilatissima – nella sua personale battaglia per la libertà sessuale delle donne. Nel graffiante The book of repulsive women, pubblicato appena ventitreenne, nel 1915; nelle illustrazioni che accompagnano i suoi temerari articoli giornalistici (nel settembre del 1914 si sottopone all’alimentazione forzata a cui venivano costrette le suffragette in sciopero della fame per scriverne sul New York World Magazine) e poi nelle xilografie realizzate per illustrare nel 1928 il suo Ladies almanack, romanzo – in realtà autobiografico – che affronta i temi dell’amore saffico, della poligamia e dell’abuso sui minori, xilografie talmente urticanti da avere creato problemi di censura con il servizio postale americano al momento della spedizione delle copie.
Tra le fonti d’ispirazione del Ladies almanack c’è anche il salotto letterario tutto al femminile nato a Parigi intorno alla poetessa e scrittrice Nathalie Clifford Barney, che Barnes frequenta abitualmente. Lesbica dichiarata, sofisticata, coltissima e molto bella, l’americana ha riunito intorno a sé al 20 di rue Jacob uno dei circoli culturali più frizzanti della città. Ed è lì che si innamorerà di lei Romaine Brooks a cui sarà legata per oltre cinquant’anni.
Elegantissima, ricca sfondata dopo essere entrata in possesso dell’eredità di famiglia, abbandonata dal padre e lasciata a lungo nelle grinfie di una madre abusante, Brooks esordisce con una pittura postimpressionista per poi individuare la tavolozza che la renderà celebre nei grigi e nelle nebbie della Cornovaglia. Fin dalla sua prima mostra, nel 1910 da Durand Ruel, si mette in evidenza per i suoi ritratti cupi e suggestivi, dove le signore del bel mondo escono vagamente arcigne e dove splendono figure androgine di sfolgorante bellezza come la Marchesa Casati, che lei trasforma in una nuda silhouette di sapore simbolista, o l’amante Ida Rubinstein, la ballerina di Djagilev che Brooks rende anche protagonista di uno dei suoi nudi più torbidi, Il sentiero, dove la giovane donna giace esangue, liquefatta, come una sorta di cadavere su un sofà nero.
E poi c’è la collega pittrice Hanna Gluck, che ha rifiutato il proprio nome scegliendo di farsi chiamare solo Gluck e di non riconoscersi in un unico genere, che Brooks ritrae come Peter, una giovane ragazza inglese. E ancora Renata Borgatti, musicista, che l’artista mette al piano, le mani lunghe sui tasti, il mantello informe e i capelli corti a confonderne il genere, in un ritratto che è un omaggio a Whistler. Fino all’autoritratto con il cappello, dove la sua figura elegante è chiusa in un cappotto da uomo, gli occhi nascosti nel buio sotto la tesa, le mani celate dai guanti, e solo la bocca rosea e il bianco della camicia accendono la cupa sinfonia dei grigi.