Il MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna ospita, sino al 1 settembre, “FRONTIERA 40 Italian Style Writing 1984-2024”, un omaggio alla ricerca critica e al percorso di Francesca Alinovi, personalità travolgente e attenta studiosa dei fenomeni creativi più innovativi emersi tra gli anni Settanta e Ottanta.
Il contributo storico e critico della Alinovi è stato a lungo oscurato dal suo terribile omicidio che, il 12 giugno 1983, privò il mondo della cultura di colei che fu un enfant prodige della critica e della curatela in grado di stravolgere la concezione di opera d’arte.
Quando ci siamo conosciuti al DAMS, con Fabiola Naldi (oggi curatrice della mostra in corso a Bologna, ndr), agli inizi degli anni Novanta eravamo colleghi di corso in Fenomenologia degli stili, pratica e disciplina.
Aleggiava ancora l’influenza e il mito di Francesca Alinovi, che proprio con la sua mostra postuma “Arte di frontiera. New York Graffiti”, ideata da un progetto che si inaugurò nel 1984, alla galleria d’arte Moderna a un anno dalla sua scomparsa, ha precorso in modo assolutamente eccellente e visionario quello che in Italia e in tutta Europa sarebbe diventata una tendenza prima di critica, e presa di posizione verso il sistema dell’arte e delle culture mainstream in generale, e che oggi viene sdoganata con le arti urbane anche a livello commerciale e istituzionale.
Ho fatto con Fabiola Naldi una “chiacchierata urbana”, nel quale la studiosa ci racconta le esperienze, le personalità, i movimenti, la vitalità della scena italiana e bolognese degli anni Ottanta e Novanta, di cui la mostra-omaggio alla Alinovi è una testimonianza viva.
Quanto l’influenza della Alinovi ha contribuito alla tua formazione e ricerca di questi anni?
“Come sai la mia formazione universitaria è alquanto simile a quella di Francesca Alinovi; e lo stesso vale per le frequentazioni, le collaborazioni e, in parte, anche gli argomenti trattati nel corso della mia carriera sia scientifica che curatoriale. Ammetto che Francesca Alinovi sia stata una sorta di giovanile fascinazione poi, crescendo, si è trasformata (in alcuni momenti della mia ricerca) in un punto di riferimento, un luogo della memoria critica sempre vivo e stimolante. A Francesca Alinovi (e non l’ho mai nascosto, neppure alla sorella con cui ho avuto modo di dialogare) devo un’originalità di pensiero e scrittura che certamente io non possiedo, ma che mi ha permesso di costruire un’idea di cosa sia per me (e che valore abbia oggi nel nuovo millennio) la critica militante”.
Negli anni Novanta al Dams e a Bologna abbiamo condiviso gli insegnamenti di Renato Barili e Alessandra Borgogelli, quanto tecnomorfismo ed estetica mondana c’è in questa operazione al Mambo?
“Io sono laureata e specializzata in Fenomenologia degli stili (poi dottorata e post dottorata in storia dell’arte contemporanea) – devo a Renato Barilli la comprensione e l’applicazione della metodologia, mentre ad Alessandra Borgogelli riconosco l’educazione al lavoro di docente e ricercatrice come anche la “passione” per la contemporaneità della storia dell’arte tutta. Alessandra mi ha mostrato come guardare in termini “estetici e mondani” anche gli argomenti più storici, anche quelli all’apparenza più tradizionali, lasciando all’attualità e alle sue “contaminazioni” e interazioni la grande opportunità della rilettura del passato. Tutto è contemporaneo se lo si investe di riflessioni sia teoriche sia pratiche differenti ed odierne e questo, come sai, è la fenomenologia degli stili nella sua accezione più interessante, stimolante e costruttiva”.
(Gli artisti pionieri nelle situazioni autogestite come Link e Livello57, ma anche altre realtà milanesi e romane che prima erano considerati vandali o imbrattatori, oggi vengono finalmente riconosciuti…)
Secondo te, Francesca Alinovi avrebbe potuto prevedere o aveva già previsto la diffusione a livello mondiale e gli hype di queste forme d’arte “spontanea” come graffitare treni e muri, fabbriche e aree dismesse?
“Francesca Alinovi ha saputo guardare a una pratica (ora diremmo disciplina) allora già nota, ma ancora non pienamente sdoganata dal sistema artistico internazionale (se si escludono i soliti nomi come Basquiat e Haring che però hanno poco a che vedere con lo style writing nella sua accezione più pura e dogmatica). I testi da lei scritti attorno alla prima generazione americana sono un esempio di scrittura critica inaspettata e decisamente militante allora mai portata avanti. A lei si riconoscono alcuni fra i testi critici più interessanti per l’epoca, a lei si riconosce la lungimiranza di aver pensato a molti di quei giovanissimi “vandali” non solo dentro le gallerie diciamo commerciali ma “storicizzati” in un museo. E in questo credo ci sia l’aspetto più attuale del suo guardare “oltre il muro”, di spingersi verso una dimensione quasi futuristica in cui lei stessa dichiarava come tutti questi nuovi operatori culturali avrebbero cambiato le sorti del panorama urbano e non solo. E aveva visto bene, aveva visto lungo; la sua morte prematura e incomprensibile ancora oggi non le ha permesso di andare oltre, di far maturare quelle intuizioni e di vedere apparire ciò che lei aveva solo immaginato in termini critico artistici. Non smetterò mai di ricordare che qualsiasi cosa sarebbe potuta accadere, dal quel 12 giugno 1983 non è più accaduta, la morte ha fermato la vita di una giovane donna e di una promettente studiosa”.
Quanto hanno contribuito allo “sdoganamento” dei cosiddetti “graffiti”, la ricerca e le intuizioni della Alinovi, e quindi la narrazione che ne fai in questa mostra-panoramica?
“Frontiera 40 parte dal momento in cui viene realizzata (a un anno dalla morte di Francesca Alinovi), la mostra “Arte di Frontiera New York Graffiti” e guarda ad essa in termini di riconoscenza, omaggio e celebrazione (soprattutto perché si svolge nello stesso luogo, seppur ora la Galleria d’Arte Moderna sia divenuta MAMbo Museo d’Arte Moderna di Bologna e abbia cambiato “domicilio”). Il 2024 non poteva non partire dal 1984 ma Frontiera 40 guarda avanti, a ciò che è successo dopo, alle generazioni che, a partire anche dalla visita della mostra, hanno raggiunto consapevolezza estetica e a tutti gli incontri e le relazioni che si sono svolti nei decenni successivi. Non sono neppure in grado di dire se Francesca Alinovi avrebbe continuato a portare avanti questa parte della sua militanza critica, ma certamente ciò che ci ha lasciato è indelebile. E la sua mancanza si sente ancora oggi”.
L’arte e la cultura provenienti dalla strada, dalla scena e culture doppia H (HH: hip hop n.d.r) che celebrano oggi i cinquanta anni di attività, dopo un processo normalizzante, in controtendenza rispetto al sistema dell’arte che oggi sembra autoreferenziale, appiattito e annoiato, possono essere un esempio di buone pratiche da riprendere in considerazione, magari innovando anche con le nuove tecnologie o con le dinamiche dei social media?
“La contemporaneità visiva è letteralmente esplosa in molte direzioni: a partire dalla strada, ma riversando informazioni e pratiche nella rete. Le varie combinazioni espressive, comunicative e identitarie si sono alimentate l’una nell’altra creando un unico flusso nel quale spesso la riconoscibilità è confusa, manipolata e appiattita. A che punto siamo credo sia visibile a molti, dove poter guardare e trovare nuove direzioni espressive credo non sia così semplice. Di sicuro il riverbero, il rumore di fondo, oramai costante e indistinto che ritroviamo nella rete (a partire dai social e dai suoi contenuti), ci porta a una fruizione massimale, spesso distratta e a volte anche pilotata dalle stesse informazioni. Sono giunta a una riflessione personale che mi sta lentamente facendo prendere le distanze da una certa comunicazione massiva, aggressiva e ridondante (ovvero quel tipo di contenuti così autocelebrativi da divenire quasi stucchevoli). Prendere le distanze, da non confondere con il pregiudizio o lo scetticismo, mi sta facendo diventare più lucida nell’osservazione di ciò che mi circonda, a partire dall’arte e da tutte le sue derivazioni. A tale riguardo proprio le pratiche legate alla strada stanno subendo queste ulteriori accelerazioni, per questo mi ripeto che devo prestare molta attenzione e allontanarmi dalla bulimia visiva che producono tali pratiche comunicate nel web. Tutto questo per dirti che da un lato l’espansione digitale tecnologica può essere utile per sperimentazioni o diffusione di contenuti, dall’altro lato però, ora più che mai, mi sento di reclamare la strada, il mio spazio nello spazio pubblico, la mia libertà nel luogo collettivo”.
Mancano oggi questi guizzi, una fase come quella del periodo d’oro di Bologna, ricca di fermenti culturali, incubatrice di talenti, così come lo furono il Link (centro culturale-galleria d’arte bolognese, aperta a festival, musica e fermenti underground, ndr) e il Livello 57 (centro sociale molto attivo tra anni Novanta e Duemila, ndr), ma soprattutto l’onda lunga, come quella nata in uno dei primi focolai del rap italiano, con il connubio rap/graffiti nel periodo delle ‘posse’, tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta nel centro sociale Isola nel Kantiere, a Milano, dove si forma infatti l’Isola Posse All Stars, che nel 1991 pubblica il singolo Stop al panico. Un’esperienza durata poco, ma di grande impatto: da qui emergevano alcuni dei musicisti e writers che hanno di fatto inventato il rap in italiano e i graffiti “italian style” e che troviamo nella raccolta di documentazione incredibile di ben 180 bozzetti nel tuo lavoro per la mostra “Frontiera40”.
Credi che possa tornare in voga una scena viva come quella del passato, con le nuove generazioni di artisti di trap, drill e new writing?
“Non credo che quello che accadde fra la fine degli anni Ottanta e per buona parte dei Novanta sia ripetibile, non perché l’attualità non sia più in grado di produrre soluzioni differenti, bensì perché lo scenario economico, sociale, politico e culturale era diverso. Aggiungo anche che non mi interessa la lettura mitologica, simbolica e anche malinconica, che vedo sempre più spesso. Senza quel primo momento non sarebbe accaduto tutto il resto, ma mi aspetto dalle nuove generazioni quasi un rifiuto dei maestri e dei pionieri per sentirsi liberi di agire in una sperimentazione del tutto personale. Celebrare scientificamente il passato non può e non deve essere il solo modo per affrontare il presente, sicuramente è importante ribadire i concetti, evidenziare i vari percorsi ma la nostra generazione deve avere il coraggio di farsi da parte pur continuando a ribadire storicamente il proprio punto di vista”.
Possiamo considerare che la scia e la parabola nata proprio nei periodi di cui tratti si concluda probabilmente con Blu e Erikailcane, e con il gesto clamoroso della cancellazione dei suoi pezzi a Bologna, oppure abbiamo ancora altre eredità e sviluppi nuovi ancora attivi?
“Ciò che è accaduto dai primi 2000 fino al 2016 (che coincide con la cancellazione di Blu della propria storia bolognese) è finito. L’approccio che ha caratterizzato quel nucleo di autori pervade solo in alcuni di loro ed è resistito, con molta fatica, al flusso aggressivo e sistematico dell’ultimo rigurgito capitalista. Sono conscia che queste mie ultime parole risultino quasi “antiche”, appartenenti a un altro secolo, ma la modalità con cui quella generazione si riversava nello spazio pubblico e tentava una qualche forma di “riflessione” con il mondo circostante è divenuta sempre più difficile. Sono però dell’idea che assisteremo a proposte diversificate e rinnovate, soprattutto alla luce di ciò che sta accadendo a livello mondiale. Vedo una nuova generazione che sta tentando di destarsi dalla sonnolenza di un’educazione culturale diretta a un atteggiamento normato e regolato dallo stesso sistema. Mi sembra di intravedere qualcosa che tenta di emergere e questo mi fa ben sperare”.
L’arte urbana, prima chiamata street art, è un’arte effimera per eccellenza, ed è il suo bello e una importante cifra che la contraddistingue, oltre all’appartenenza e identità territoriale. Nella disciplina del Writing e nella ricerca dello stile di ogni autore, come arte neo-calligrafa, i disegni, gli schizzi e gli sketches sono tra le poche testimonianze rimaste. Chiaramente a parte poche “fanze” (le fanzine o giornali indipendenti, ndr) e foto d’epoca anche piuttosto sbiadite, dal momento che a quei tempi non c’erano tutti i post e i documenti visivi di oggi…
Fabiola, tu hai svolto una grande indagine storica, anche site specific, guardando al territorio italiano come a un grande bacino creativo e rizomatico. Come ti sei mossa per ricostruire qualcosa che non è storicizzato in modo tradizionale, e hai in mente altri sviluppi per questa “indagine”?
“FRONTIERA 40 è letteralmente il risultato di trent’anni di studio, di ricerche, di incontri e di collaborazioni. L’indagine, che mi ha portato a “isolare” 181 writer italiani fondamentali (e sono conscia di aver mostrato solo una piccola ma indiscutibile parte delle molte presenze italiane), nasce dalla necessità di “usare” il museo come dispositivo inverso a ciò che solitamente accade in strada. Le mostre e le ricerche attorno il disegno non sono certo cosa nuova: il bozzetto però non ha mai avuto un ruolo di primaria importanza all’interno di un percorso critico ed espositivo museale legato al writing e in Frontiera 40 si aggiunge la possibilità di utilizzare il confronto stilistico e grafico su base territoriale e anche generazionale. Mi piace anche pensare di aver fatto un passo avanti, a partire proprio da quella modalità diciamo classica che aveva in realtà caratterizzato anche l’allestimento di “Arte di Frontiera”. A distanza di quarant’anni io continuo a vedere mostre legate a questa disciplina senza nessuno “scarto” espositivo da ciò che si è già visto ampiamente.
La modalità va solitamente o nella direzione documentativa dei memorabilia (foto, riferimenti oggettuali, confronti) o nella più attuale mostra con opere scultoree (che possano in qualche modo sfondare il limite bidimensionale del supporto muro o treno) e varie tipologie di interventi, non necessariamente su tela, dove i supporti diventano solo un pretesto per appendere a parete qualcosa, che la parete la usa in modo assai differente. Di questi tipi di mostre ne ho viste negli anni così tante che mi sono sempre detta che non mi sarei “piegata” anche io a questa modalità noiosa e tradizionale. Allora è giunta la riflessione sulla teca come miglior dispositivo classico che proprio per la tipologia di disegni contenuti diviene un meccanismo di invasione, di occupazione del museo non solo negli spazi convenzionali. In questo caso la teca si comporta come elemento di fruizione e di riflessione concettuale ben preciso: una sorta di mappa concettuale allargata nella quale solo alla fine del percorso di mostra (che in realtà non ha un inizio e una fine) si comprende il vero impatto culturale di questo grande movimento”.
Grazie Fabiola, andiamo tutti e tutte a vedere “FRONTIERA 40 italian style writing”!