Non è facile, oggi, trovare artisti che scatenino grandi passioni. Non ci sono vere passioni perché l’arte, stretta tra le due forze opposte ma complementari di un elitarismo sussiegoso che parla solo agli addetti ai lavori, e provocazione ironica che tende a stupire ad ogni costo, con l’ovvia conseguenza che nulla più riesce a sorprenderci, a colpirci, e neppure a dividerci; quest’arte, oggi, sembra per la maggior parte divenuta irrilevante: si tratti del giochino ironico di carattere pop, o del lavoro iperconcettuale che viene capito solo da chi è avvezzo a parlare il linguaggio astruso del contemporaneo, è un fatto che l’arte di oggi non abbia più presa sul grande pubblico, non sia conosciuta, non sia compresa né discussa né amata.
Ci sono artisti, però, che a questa regola si sottraggono. Uno di questi è Jago, al secolo Jacopo Cardillo, 37 anni, nato a Frosinone ma naturalizzato a Napoli, da anni protagonista di un vero e proprio tifo da stadio da parte di un vastissimo strato di seguaci (solo su Instagram, i suoi followers sfiorano il milione): non, beninteso, persone appartenenti al côté artistico (i quali anzi, come vedremo in seguito, lo malsopportano, quando addirittura non lo detestano), ma persone per così dire “qualsiasi”: impiegati, professionisti, insegnanti, studenti, gente che un tempo si sarebbe detta “del popolo”, spesso provenienti da quello straordinario bacino di umanità che è il quartiere Sanità a Napoli, dove l’artista ha, da circa un anno, trasformato una chiesa un tempo semi-abbandonata, quella di Sant’Aspreno ai Crociferi, dapprima nel suo laboratorio per creare le sculture, poi nientemeno che nel suo (si direbbe nel gergo della moda) “show room” personale – lo Jago Museum, appunto: nome un po’ pomposo e autoreferenziale per un artista tutto sommato ancora “giovane”, che nasconde però un’anima benedicente per un quartiere un tempo noto solo per le imprese criminali, e oggi invece pullulante di iniziative, oltre che di umanità, anche grazie all’attività meritoria di preti “di strada”, come quello della parrocchia di Sant’Aspreno, padre Antonio Loffredo, che per l’appunto ha concesso a Jago la Chiesa, e ai ragazzi, bravissimi, della Cooperativa La Paranza, che oggi, come un piccolo esercito armato però solo di volontà e buone intenzioni, gestiscono i numerosissimi ingressi del museo (da quando è aperto, esattamente un anno fa, sono stati registrati la bellezza di 116 mila ingressi).
È questo, dunque, lo “zoccolo duro” dei seguaci di Jago, quelli che lo stesso artista coccola, a cui risponde nelle interminabili dirette instagram, a cui manda messaggi, a cui dedica video motivazionali nei quali racconta la sua esperienza di ragazzo che “ce l’ha fatta” seguendo solo le proprie passioni; ragazzi che attira quotidianamente nel suo museo, a frotte, accogliendoli anche personalmente – com’è accaduto ai 3 ragazzi romani che, per puro gioco, su ponte Sant’Angelo, una notte avevano vandalizzato una sua scultura che rappresentava un neonato incatenato a terra (simbolo delle ingiustizie sociali presenti nella società), e che l’artista, invece di denunciare, ha voluto accogliere in studio, dando loro in mano scalpelli e mazzuoli, in modo da far provar loro cosa voglia dire scolpire, la fatica che ci vuole, il tempo, il lavoro: “la prossima volta che vedranno una scultura, si ricorderanno della fatica e del tempo che occorre per farla, e ci penseranno due volte prima di prenderla a calci”. Pedagogico, paziente, saggio, indubbiamente generoso. Strano personaggio davvero, Jago, in un panorama dell’arte in cui l’artista quasi sempre, se ha contatti con i ragazzi, ce li ha perché insegna in un’Accademia o in un liceo, e che con Instagram, le dirette, il pubblico dei followers ha spesso rapporti non facili, più di malcelato fastidio piuttosto che di rapporto costante e diretto.
Jago, invece, la sua fortuna l’ha costruita, un follower alla volta, proprio attraverso internet: dirette lunghissime in cui mostrava il suo metodo di lavoro, consigli tecnici, ragionamenti, chiacchiere a ruota libera sull’arte, spiegazione delle opere.
Non c’è dunque da stupirsi se oggi l’artista ha compiuto il grande salto: dalle tribune di Instagram a quelle delle sale cinematografiche, dove ha appena debuttato la pellicola Jago Into the White (Nexo Digital), egregiamente diretta da Luigi Pingitore e già presentata al Tribeca Film Festival di New York, nel quale l’artista si mette a nudo, dando allo spettatore la possibilità di seguirlo, passo dopo passo, nelle sue giornate, al lavoro all’interno dello studio (su una rivisitazione contemporanea della Pietà michelangiolesca), ma anche in giro, in volo, in strada, in auto, in camere d’hotel, in trasferta nella Capitale per accordarsi per il posizionamento di una scultura al centro di una chiesa, e persino nel deserto, per trovare un posto dove piazzare la scultura del bambino homeless per uno scatto o una ripresa di grande suggestione. E su tutto, campeggia il lavoro, la precisione tecnica, il confronto con i grandi: con Michelangelo, in particolare, perché Jago è uno che, quando sogna, sogna in grande.
L’abbiamo incontrato e ci siamo fatti raccontare chi si cela dietro il suo successo, qual è stata la sua storia, e cosa ci dovremo aspettare per il prossimo futuro.
Jago, puoi raccontare ai nostri lettori qual è stata la tua formazione, com’è stata la tua infanzia, e come sei diventato scultore?
Sono cresciuto in una famiglia immersa nell’arte. Mio padre era architetto e scenografo, mia madre insegnava educazione artistica e storia dell’arte. L’arte, la creatività erano elementi che hanno fatto parte della mia vita fin da bambino. Naturale quindi che facessi prima il liceo artistico, poi l’Accademia, che però non ho finito perché ho iniziato subito a darmi da fare e a lavorare. Sin da bambino, comunque, ho sempre amato fare cose con le mani, tanto che preferivo costruirmi da me i giocattoli piuttosto che comprarli. Utilizzavo fil di ferro, carta e scotch per creare dei pupazzi, e devo dire che questo amore per la creazione manuale mi è rimasto addosso fino ad oggi. Quando costruisco un’armatura (lo “scheletro” interno, in ferro, che fornisce supporto e stabilità alle sculture, ndr), ritrovo la stessa gioia e lo stesso piacere di quando ero bambino. È come se ogni volta si risvegliasse in me la gioia del bambino che costruisce, sogna, immagina…
La manualità, quindi, è fondamentale per te, fin da fin dall’inizio.
Sì, è sempre stata fondamentale. Il mio cervello funziona così: riesco a visualizzare la forma di un oggetto solo manipolandolo. Probabilmente ho meno predisposizione per la matematica, ma di sicuro ho una naturale inclinazione per la manualità.
Oggi molti artisti contemporanei concepiscono solo l’idea per una scultura, delegandone poi la realizzazione ad altri. Tu invece sembri appartenere a un’altra scuola, realizzi la scultura in prima persona, senza neppure servirti di maestranze…
La realizzazione vera e propria di una scultura, per me, possiede una sorta di importanza vitale, e direi quasi rituale. Amo molto quella fase del lavoro in cui sono chiuso in studio, solo con me stesso, a lavorare sui particolari di una scultura, su una mano o sul dettaglio di un volto… per me è una parte fondamentale del lavoro, perché, pur partendo la scultura da un’idea di base, è attraverso il lavoro in studio, direttamente sul marmo, che l’opera, per me, prende veramente corpo. È vero, oggi molti scultori si limitano a pensare un’idea, per poi farla realizzare ad altri. È una pratica che ha un suo senso e una sua logica, soprattutto in un mondo come quello attuale, dove il mercato necessita spesso di tempi di realizzazione veloci e di grandi quantità di opere da vendere, specialmente quando le opere vengono prodotte per le fiere, e questo spinge molti a delegare ad altri la realizzazione dell’opera, per produrne di più in meno tempo. Io, però, preferisco mantenere il controllo diretto sulla sua realizzazione, dall’inizio alla fine. Ho bisogno di tempi di solitudine, di pausa, di riflessione, di lavoro a tu per tu con la materia. Solo così riesco a entrare in sintonia, in una sorta di armonia, con la forma che sto creando, senza distrazioni e in totale solitudine.
Eppure, nonostante questo approccio estremamente classico, tu hai un rapporto con il processo artistico che è molto innovativo e contemporaneo, fatto com’è di intraprendenza personale, imprenditorialità, ricerca del consenso attraverso i social, contatto diretto col tuo pubblico saltando ogni mediazione, un tempo vitale, con chi detiene il potere nell’arte: critici, galleristi, direttori di giornali…
È vero, a quei periodi di totale solitudine all’interno del mio studio, fondamentali per creare l’opera, io contrappongo anche altri momenti molti importanti per il mio lavoro. Uno è la dimensione dell’imprenditorialità, del cercarmi da solo i metodi per promuovere, per trovare una sede, un contesto per il mio lavoro. Per me è naturale muovermi da solo, è una cosa che mi appartiene, perché quando non mi sento a mio agio in determinate logiche, cerco sempre di trovare il modo per uscirne, lavorando come piace a me: in questo modo sono riuscito a farmi conoscere autonomamente, trovando da solo il mio pubblico. Sai, in generale, penso che, se non ti senti a tuo agio in un determinato sistema, puoi fare due cose: o lasci tutto com’è passando il tempo a lamentarti e dicendo che è il mondo che non ti capisce, oppure ti rimbocchi le maniche e fai andare le cose a modo tuo, insomma ti ritagli una dimensione di libertà, sfuggendo a logiche che senti lontane da te. Io scelgo in maniera naturale questa seconda strada. Stando fuori dai giri, mi sono trovato a inventarmi da solo la mia professione, a crearmi un percorso che è in tutto per tutto mio, dove ho dovuto imparare da solo a ricoprire tutti i ruoli, quello del creatore, ma anche quello dell’imprenditore, dell’organizzatore, del social media manager, per andarmi a cercare da solo il mio pubblico…
E l’altra dimensione che vai cercando, è appunto quella che ha a che fare col pubblico?
Esattamente. L’opera comincia ad esistere veramente solo quando ha qualcuno che la guarda, è la condizione necessaria alla sua esistenza. A me, allora, piace in maniera particolare avere un contatto diretto col mio pubblico, mi piace conversare, ascoltare, sentire i commenti e vedere i volti delle persone che si trovano a tu per tu con le mie sculture. Sono loro la mia forza, quelli che mi danno energia e mi tolgono da quella dimensione di solitudine in cui l’opera si è venuta a creare.
Nel sistema dell’arte, non tutti ti amano, forse proprio per questa tua dimensione che viene vista come un po’ arrogante, di voler fare le cose tutto da solo, diventando manager di te stesso, cercandoti da solo i followers su internet…
Probabile, non si può piacere a tutti. Sai, per me questa dimensione è stata una cosa naturale, credo che faccia parte del cambiamento delle dinamiche del lavoro nella contemporaneità, oggi il lavoro è più fluido, più aperto, non si può approcciarsi al lavoro come se fossimo rimasti a trent’anni fa. E se a qualcuno questo non piace, o non piaccio io, ha tutto il diritto di dirlo, la cosa non mi tocca. Ma sai, io penso che a volte queste inimicizie nascano senza una vera ragione, forse, se con chi non ama il mio lavoro ci trovassimo di fronte a un piatto di pastasciutta, riusciremmo a capirci, a parlarci serenamente. Io credo sempre nel confronto, nella dimensione umana del dibattito e della discussione.
E dal punto di vista stilistico, tu ti senti un autore in qualche modo “classico”? Tu guardi molto alla scultura antica, a Michelangelo, insomma alle forme della classicità, in più usi un materiale assolutamente classico come il marmo. Anche la tecnica che utilizzi è quella del Canova…
Non so cosa sia veramente “classico”. Fra 200 anni, cosa vedremo noi come classico e cosa come contemporaneo? L’importante, io credo, è essere profondamente connessi con la propria poetica, col proprio linguaggio. Il mio è il linguaggio del corpo, dell’anatomia umana, è un linguaggio che parla da sempre con le stesse regole, che sono quelle che appartengono all’uomo, alle sue emozioni, alla sua umanità. È classico, questo? Se queste mie sculture riescono ad arrivare, a parlare ai ragazzi di oggi e alle centinaia di persone che ogni giorno vengono a visitare il mio museo, vuole dire che, più che classiche, sono profondamente contemporanee.
Quindi, ancora una volta, è il rapporto con il pubblico a contare più di tutti?
Guarda, per me è stato sempre fondamentale il rapporto con le persone, e continua tutt’ora ad esserlo, perché il mio lavoro è stato sempre meravigliosamente condizionato dal rapporto con gli altri. Con il pubblico, certo, ma anche con chi, grazie al mio lavoro, riesce a trovare una nuova dimensione di vita, a imparare nuovi lavori, nuove opportunità. Solo col mio museo, ho dato delle occasioni ai ragazzi che vivono qua, in un quartiere, la Sanità, che fino a poco fa era noto solo per la cronaca nera. Anche questo è un aspetto dell’arte, per me.
Quindi vedi anche una dimensione sociale, politica dell’arte? Tra l’altro anche le tue sculture nascondono spesso riferimenti in un certo modo politici o sociali: penso ad esempio alla scultura del piccolo bimbo morto, che per mesi è stata allestita a Roma, a Castel Sant’Angelo, che sembra un grido contro le ingiustizie, contro la povertà, il razzismo…
Fare arte è sempre un atto politico. L’arte, la bellezza, la creatività nutrono il mondo, raccontano sempre il mondo a modo loro. E dunque sono già di per sé politici, perché parlano alla nostra dimensione sociale, comunitaria. Parlano di noi come uomini e come cittadini. E poi c’è una dimensione che è politica nel lavoro che sta intorno all’opera, per esempio è già un atto politico quello di recuperare degli spazi e fare in modo che i ragazzi del quartiere trovino un’occupazione, si entusiasmino nel lavoro collettivo, che è quello che stiamo facendo qua, con lo Jago Museum.
Per concludere vorrei domandarti cosa pensi dell’arte contemporanea? Tu, quando parli, ti riferisci sempre ai maestri classici, a Michelangelo… ma trovi dei maestri anche tra i contemporanei?
Io sono per natura un curioso, cerco di guardare tutto, di trovare spunti ovunque, di ascoltare chunque. Di maestri ne trovo ogni giorno, anche tra chi magari fa dei mestieri umili, ma ha sempre qualcosa i nuovo da insegnarmi. Quanto all’arte contemporanea, devo ammettere che non frequento molto le mostre e le inaugurazioni, perché sono sempre in studio a lavorare, a sudare dietro una scultura. Come ha detto una volta Ennio Morricone, all’ispirazione preferisco la traspirazione, perchè l’opera non nasce né dalle idee né dall’imitazione di qualcos’altro, ma dal lavoro stesso, dallo stare ore e ore su un blocco di marmo e lavorarci, sudarci sopra, tirare fuori la forma attraversio un lavoro lungo, duro e faticoso. Il mio unico dogma è questo: lavorare, lavorare e ancora lavorare.