Marco Cingolani, nelle biografie reperibili su vari testi o online, viene definito come colui che ha sempre cercato, sin dai suoi esordi, di annullare il potere normativo delle immagini mediatiche, sottoponendole alla cura radicale dell’artista.
Sicuramente tutto ciò corrisponde al vero, ma ritengo che Cingolani sia anche molto altro e che “la sua arte” sia la perfetta emanazione della sua stessa individualità: un’importante forza comunicativa, identitaria e carismatica. La pittura, prima più figurativa, successivamente più “informe”, ha sempre rivestito un ruolo determinante, così come l’aspetto trascendente, religioso, coniugando ricerca la sperimentale ad uno studio approfondito della storia dell’arte, della letteratura, dei fatti di cronaca, della religione e soprattutto dello spirito dell’uomo lungo la sua storia, da quella più remota a quella più attuale.
Ciao Marco, per chi non ti conosce ci diresti chi è Marco Cingolani?
Sicuramente un pittore felice che ama la propria vita e attività.
Hai avuto sicuramente una vita poliedrica, multiforme ed interessante, ti ha sempre contraddistinto un notevole ecclettismo: tra tutte le tue esperienze espressive, creative, mi riferisco anche a quelle relative alla scrittura, alla ideazione e realizzazione di riviste, all’interesse per la musica e la cultura punk ma anche per quella Pop degli anni Ottanta. Quale è stata la più interessante o quella alla quale sei più legato e perché?
Nel 1978 mi sono trasferito a Milano iniziando a frequentare l’ambiente creativo underground che ruotava attorno alla figura di Graziano Origa, intellettuale poliedrico, illustratore e direttore di riviste musicali e di costume. Ho contribuito alla realizzazione del magazine Punk Artist, ideato e diretto da Graziano Origa e Adriana Gianfranceschi, rivista di grande formato ispirata ad “Interview” di Andy Warhol; le grandi pagine della rivista ospitavano interviste originali a personaggi emblematici del periodo: Helmut Berger, Dario Bellezza. Pier Clementi, Alberto Moravia, Dalida Di Lazzaro. Laura Betti, Klaus Kinsky, Iggy Pop, Billy Idol, Krisma, Ivan Cattaneo, Dino Pedriali.
I primi numeri furono condivisi e sponsorizzati da Giorgio Armani e in breve “Punk Artist” divenne un periodico attento alla nascente moda “made in Milano” con interviste e reportage di sfilate, discoteche e party esclusivi; Armani&Galeotti, Gianfranco Ferrè, Riccardo Albini, Claudio la Viola, Krizia mischiati nella rivista assieme alla nascente “culture club” milanese: Plastic, Prima Donna, NoTies, Sensimilia, che coloravano la notte di dance ed estravaganze d’ogni tipo. Nella rivista mi firmavo con lo pseudonimo di Marco Cy, dedicato al grande pittore americano Cy Twombly.
I fatti di cronaca, le immagini mediatiche, e quindi direi la volontà di indagare o comunque prendere in considerazione l’uomo, forse in questo caso sarebbe più corretto dire l’umanità, hanno sempre rivestito un ruolo determinante, almeno per un certo periodo, nella tua ricerca e quindi nella tua vita. Perché?
In quegli anni si stava formalizzando a Milano una nuova sensibilità artistica le cui radici non affondavano più nella storia dell’arte e nella citazione, ma si praticava la manipolazione critica della realtà e della sua comunicazione attraverso i mass media. L’immagine veniva decontestualizzata, sottratta all’uso del senso comune, stravolta radicalmente, quasi schernita. Il mio lavoro, sin dagli esordi dedicati al valore estetico dell’economia, ha sempre cercato di annullare il potere normativo delle immagini mediatiche, sottoponendole alla cura radicale dell’artista. Ero e sono certo che l’arte offra un punto di vista decisivo per l’interpretazione del mondo. In questo contesto sono nati i miei quadri delle Interviste, dove personaggi famosi per la loro riservatezza venivano sommersi dai microfoni e le serie dedicate all’attentato al Papa e alla tragica vicenda di Aldo Moro.
Successivamente e quindi anche attualmente la tua pittura è divenuta più “spirituale”: l’immagine, la narrazione che prima aveva un ruolo determinante, adesso è stata sostituita dalla pittura, in quanto gesto pittorico, come se la figura fosse “evaporata”, dissolta nell’espressione pittorica, tra e nel colore. Condividi questa mia lettura?
In realtà faccio sempre fatica a capire il concetto di spiritualità, perché penso che la massima concentrazione di spiritualità sia dappertutto: ovunque e comunque. Invece hai ragione nel sostenere che la pittura è diventata totalmente protagonista, ma questo non dipende da una maggiore o minore presenza dell’immagine, ma dal fatto che sono progredito e mi sono concentrato nella pratica del pittore: questo quadro non è una pipa, non è un racconto, non è un messaggio, ma è un insieme di colori, linee e superfici. Aggiungo: dipinte con un timbro personale.
Domanda da cinque milioni di euro o di dollari, decidi tu: che valore ha la religione e pertanto essere credenti?
Senza inerpicarmi in discorsi teologici/antropologici mi piace citare il grande Chesterton: “La religione cattolica è il luogo dove tutte le verità si danno appuntamento”. Esattamente come l’arte è il luogo nel quale tutte le verità si danno appuntamento. Non entro nel campo delle psicosi, sia di chi crede e di chi non crede. Sono cattolico apostolico romano per educazione e prassi. La “pratica” è decisiva come nell’arte. Insegno pittura a Brera e inizio sempre il corso dicendo: “L’arte non esiste, esistono gli artisti”: L’arte è una incarnazione, così come la religione cattolica che esiste in quanto incarnazione: non si tratta di riflessioni, ma di “pratica” che diventa “pratica comune”
Non solo per il tuo amore nei confronti dei gatti, ma se dovessi accostarti ad un personaggio immaginario, delle favole, il mio pensiero va al Gatto di Cheshire di Alice nel paese delle Meraviglie: un personaggio astuto, enigmatico sicuramente intelligente, ma a volte anche criptico e come appunto si evince chiaramente nella fiaba di Carroll, forse l’unico personaggio assennato e ragionevole. A tal proposito penso che tu abbia molto chiaro come “funzioni” il mondo dell’arte o come si dice adesso il sistema dell’arte… Vista questa premessa ti chiedo: ha senso scegliere di fare l’artista in questo momento storico?
Ovviamente non si sceglie, ma si risponde ad una chiamata. Sempre Chesterton scriveva che “Il temperamento artistico è la malattia che affligge i dilettanti”. Quindi non si sceglie di fare gli artisti, ma è il mondo che ti sceglie e ti aiuta riempiendoti di difficoltà.
Cosa ti aspetti dal domani?
Diciamo che comincio ad avere una età nella quale ci si aspetta solo il peggio, ma essendo cattolico non mi affido al mondo, ma al Paraclito.
Hai da poco inaugurato una mostra personale presso la Galleria Gaburro di Milano, intitolata: “Atelier du peintre”. Piccola antologia di colori, persone, opere e omissioni.” Un titolo che come hai dichiarato rimanda al famoso omonimo quadro di Gustave Courbet. Cosa hai voluto raccontare e descrivere con questa mostra?
Courbert ha concentrato tutto il suo mondo in un quadro, io ho cercato dilatarlo in uno spazio articolato, presentando nel mio “compito” pittorico assieme agli amici che mi hanno reso migliore la vita: musicisti, inventori, poetesse ritratti su cartelli di legno sostenuti da un palo, pronti da essere portati in manifestazione. Quindi ho portato libri, riviste e piccoli teatrini d’affezione, realizzati come dei pop-up fotografici, rappresentanti alcuni momenti importanti del mio passato; in uno rappresento il mio esordio nella rivista Punk Artist, il secondo con l’interno dello studio in via Lecco attorniato da quadri, il terzo presenta la performance “Liquidare Duchamp” che consistette nel realizzare e vendere miniature dell’orinatoio di Duchamp, prima in strada poi nella galleria Luciano Inga Pin. In mostra ho portato quadri di ogni epoca siccome è ciò che amo appendere in studio su una grande parete, alcune sedie, il tavolo di pittura con colori e pennelli, un cavalletto. Nessuna polemica, solo apologie.
Tra le opere in mostra, oltre naturalmente alle opere importanti come: “Conferenza stampa” del ’97 ed “Intervista a Rimbaud” del ’99, la mia attenzione si è soffermata con molto interesse su un’opera del 1975, quando avevi quattordici anni. Di cosa si tratta? Pensavi già di fare l’artista? Si sono avverati i sogni di un giovane uomo?
Si tratta di una serigrafia realizzata al liceo artistico, simpaticamente ingenua, come il piccolo disegno pennarelli realizzato nel 1975 alle medie del paese. Eppure, soprattutto il disegno è molto simile a quelli odierni, mentre l’autoritratto sottolinea il mio amore per le facce dell’umanità. A quell’età non pensavo di fare l’artista perché non era un mestiere, venivo da un paesino e volevo fare qualcosa di eccitante e sorprendente: insomma volevo una vita interessante e stimolante. Qualche anno dopo ho deciso di fare il pittore: il 3 aprile del 1983 ricevetti i primi soldi da un gallerista e da allora mi sento “professionista”.
In mostra ci sono anche numerosi ritratti. Ci spiegheresti perché questa scelta?
Sono parte di un progetto più ampio intitolato “FAN PARADE” dedicato alle persone di cui sono “cheerleader”: Saranno 101 cartelli che saranno esposti tutti assieme sovrapposti, come in una manifestazione. Alcuni mi sono stati commissionati, ma ho accettato solo quando incontravano la mia approvazione culturale.
Inoltre sono presenti altre opere, che potremmo definire una sorta di d’après, omaggi o comunque riferimenti ad opere o ad importanti artisti della storia dell’arte. Perché questa scelta?
Un amico critico mi ha detto che nel mio modo di dipingere rivede il gesto di Watteau: siccome concordavo con lui mi sono ricordato di un’opera che col pittore dedicò ad una bottega d’antiquari e mi è piaciuto citarla, anche se è molto distante dal quadro che ho dipinto. Mi piace molto la pittura del Settecento liquida ed atomizzata, sfrangiata. Il pittore che preferisco è il Tiepolo perciò mi sono immaginato assieme a lui mentre progetta come decorare la reggia di Würzburg.
Vuoi dirci qualcosa che non ti ho chiesto?
È una mostra a cui tengo molto, dove ho cercato di presentare i miei colori e il mio mondo; in pratica quaranta anni di pittura e di vita, sperando di aver reso facile la lettura di un percorso complesso.