È terminato da poco il Sappho Lesvos Festival, che si è svolto sull’isola Lesbo in Grecia. Il primo festival culturale dedicato a Saffo (fine VII, prima metà VI a.C.), poetessa dell’antica Grecia nata sull’isola.
Saffo è stata la prima donna a inserirsi in un contesto culturale dominato da un mondo completamente maschile, in cui celebrava l’amore omosessuale. Una dimensione che ben conosceva, poiché sull’isola le donne avevano delle libertà che tradizionalmente erano prerogativa dei soli uomini, pur essendo stata obbligata a sposarsi con un uomo ricchissimo e da cui ebbe una figlia. All’interno dell’area del tiaso, intorno al tempio di Afrodite, la poetessa aveva il compito di istruire e preparare le donne alle nozze. E è qui che nascono i suoi componimenti, i carmi e gli epitalami, i canti nuziali.
Il festival, attraverso un percorso che si snoda tra arte, letteratura, teatro e azioni performative, ha messo in scena un programma ricco di appuntamenti per approfondire la sua poetica e le tematiche da lei affrontate, moderate dalla giornalista Maria Nikoltsiou. Incontri, conversazioni, azioni cui hanno fatto da sfondo luoghi d’eccezione come Eressos Cultural Centre, Eressos Museum, il Santuario di Messi, il Castello di Mitilene. Tra i partecipanti professori, attori, artisti e musicisti.
Tra gli ospiti internazionali Julia Krahn, artista tedesca che lavora tra Milano e Sorrento, che ha presentato la performance “HESPERUS – The Lost Child”, curata da Zoi Kyriakakos (co-founder del progetto IsorropiaHome Gallery), con l’aiuto di Giorgio Katsaros, e musiche di Zowa, in collaborazione con la Regione del Nord Egeo, e con LUMAD (società di produzione di lungometraggi e serie televisive con sede a Atene).
“Hesperus, who brings back all the things that the glorious Dawn scattered, You bring back the sheep, you bring back the goat, but you don’t bring back the daughter to the Mother”, è il poema di Saffo che l’artista ripete come un mantra, cui fanno eco i suoni del mare e le musiche di Zowa. Un insieme di suoni tribali e elettronici, che nel suggestivo scenario del castello a picco sul mare, all’ora del tramonto, avvolgono il pubblico, interrotti solo dall’urlo liberatorio dell’artista.
In principio Krahn rimane in silenzio vicino alle vecchie pietre del castello. È quando il sole tramonta e arriva Espero (Venus), che con un megafono integrato al teschio di un cavallo, inizia a ripetere la poesia, e mette in atto un’azione di ricongiungimento con la natura. Prima con la terra, entrando all’interno di un cerchio composto da legni dell’isola, con un albero dalla forma di una Y, che è per lei un segno di rigenerazione. Accanto forma un secondo cerchio in cui deposita i materiali recuperati sulla spiaggia o portati a riva dal mare (legni, rami, semi, ossa di animali, capra, cavallo, mucca, pecora, cane), che custodisce all’interno del vestito bianco, che copre il suo corpo sinuoso.
È quando entra in acqua che il peso degli oggetti e quello della loro memoria, si disperdono. Trasportati dalla corrente, fino a scomparire. L’artista ci parla di questo, della scomparsa, dell’assenza dell’amore. Non ci racconta dell’amore saffico descritto nei testi che venivano cantati nel tiaso. La disperazione della separazione, la perdita delle giovani donne destinate alle nozze, rapite alle madri e a Saffo. Ma della mancanza dell’amore. Un’assenza che si materializza nel vuoto storico contemporaneo, che racconta gli orrori glorificati nei nuovi dogmi, trasfigurati dai media e destinati a una società incapace di provare un sentimento di amore “verso il pianeta, verso il prossimo, verso noi stessi”.
Il lavoro di Krahn interseca molti aspetti che avrebbero bisogno di essere approfonditi, a partire dall’uso del corpo e dal ruolo della performance, che trova forme di comunicazione con la natura, come in questo caso. A partire dalle tematiche affrontate anche in altre sue opere, che tentano di scardinare l’immagine dell’umanità, di analizzarla e studiarla (forse come residuo della sua formazione medica, abbandonata poi per seguire l’arte). Per restituire opere che sono stratificazioni di significati, di storie, di conoscenze, spesso, ancestrali e rituali. E che si posizionano sul piano visuale come possibili punti e spunti di riflessione, con cui interrogarsi sugli umani, e su ciò che ci rende ancora umani.