In questo aneddoto vi parleremo di un grande studioso, un archeologo, e non proprio un archeologo qualsiasi, ma quel Johann Joachim Winckelmann che passò alla storia per aver stilato i fondamenti del neoclassicismo. Lui, che di tanta erudizione aveva fatto un mestiere, e redditizio per giunta, finì malamente, per chi non lo sapesse, a Trieste, la mattina di mercoledì 8 giugno 1768, scannato nella camera numero 10 dell’Osteria Grande, la principale locanda della città e attuale Grand Hotel Duchi d’Aosta, nell’attuale Piazza Unità d’Italia, con “tre ferite nel petto, due nel ventre, molto profonde, e penetranti, nell’intestini, et una in una mano…”, per mano d’un ragazzo, “di statura ordinaria e scarno di vita, di barba e capelli fatti in coda di color castagno scuro, di carnagione bianca in facia e vajolata”, il quale, per ironia della sorte, pur essendo non bolognese, ma pistoiese, si chiamava nientemeno che Francesco Arcangeli, proprio come quell’altro che, molti decenni più avanti, solcherà le strade della critica d’arte lasciandovi un segno tutt’altro che indifferente.
Tuttavia, questo Francesco Arcangeli è tutt’alto che critico o letterato, bensì, come avvertono le cronache del tempo, un “forastiere ittaliano”, “un miserabile cuoco”, un disperato, e per di più pregiudicato (era infatti giunto da poco da Vienna dopo una condanna di un anno ai lavori forzati per un furto), e s’aggirava intorno all’Osteria Grande e alle altre caffetterie senza arte né parte, appena giunto da Venezia per traffici di cui nessuno sembrava saper nulla.
Né alcuno seppe mai spiegarsi la stranissima amicizia che legava questo disperato con Winckelmann, al punto che i due, benché conosciutisi da pochi giorni, non si separavano praticamente mai. Winckelmann era infatti di passaggio a Trieste, e vi alloggiava sotto falso nome, facendosi passare unicamente come “signor Giovanni”, in attesa di una nave che lo portasse ad Ancona, per proseguire poi per Roma; e tuttavia si attardava a girare per le strade assieme a un cuoco, pregiudicato e per così dire disoccupato, frequentatore di caffè dove potesse far conoscenza con forestieri danarosi, “egli dicendomi”, è il cuoco adesso che parla, l’Arcangeli, il disperato, l’assassino, “che da Roma mi averebbe scritto, e che fossi io andato a Roma, mi averebbe fato vedere il Palazzo del Cardinale Albani, et averebbe fato vedere chi egli era, stimato, e conosciuto”.
Benché conosciutisi, dicevamo, da appena 8 giorni, e casualmente, in quanto vicini di stanza all’Osteria (Winckelmann la 10, l’Arcangeli la 9), i due vanno sempre in giro assieme, mangiano assieme, sembrano diventati inseparabili, si attardano ogni sera assieme nella camera dell’Arcangeli, “di modo”, come racconteranno i camerieri dell’Osteria al processo, “che mangiando loro a tavola rotonda uno sedeva vicino all’altro, e la sera ambi cenavano nella stanza al N° 9, et avevano tanta confidenza assieme, che sempre andavano per la città, et alle Caffettarie unitariamente e sempre assieme, di modo che si congetturava essere amicissimi”.
L’amicizia sfocerà, come abbiamo visto, nel “tumulto” che la mattina dell’8 giugno il cameriere dell’Osteria, Andrea Harthaber, sentirà arrivare dalla camera n° 10, “che io credeva fossero le serve di casa”, come dichiarerà in seguito al processo, “quali mutassero il letto da un luogo all’altro, come alle volte suol farsi, perciò non feci alcun riflesso, ma avendo pocco dopo sentito dell’altro rumore simile, e poi a cadere a terra con gran strepito… mi portai sopra per vedere, che rumore era, molto più stante a quell’ora sempre era solito quel Signore, che in detta stanza abitava, d’esser fuori di casa, et andava tutti li giorni a spasso con l’altro, che stava alogiato nell’altra contigua stanza contrasegnata al N° 9, l’onde salito le scale e portatomi alla porta di detta camera al n° 10, quale era sol tanto chiusa col saltarello, et aprendola, vidi, che quel Signore, che fu amazato era disteso a terra, et l’altro, che allogiava al N° 9 con un piede ginochiato stava con le mani sopra del suo petto, ma appena questo vedendo aprirsi da me la porta, subito s’alzò in piedi, e corendo verso di me, mi diede una spinta, che mi gettò a parte, e se ne fugì fuori dalla camera. In vedendo ciò, mi era molto maravigliato, in aver osservato, che due Signori, quali erano sì streti amici, che sempre conversavano assieme, in allora si azufavano, senza abadare, dove quello fosse fugito, andai verso quel Signore… lo volevo solevare, ma esso solo si levò da terra, et osservai in quel mentre, che li coreva del sangue dal petto, et avendoli io ricercato, cosa fosse stato? Egli senza darmi altra risposta, alzatosi la camicia, mi disse Guarda cosa mi ha fatto”.
Sia come sia, il grande Winckelmann morirà poche ore dopo, senza che nessuno potesse salvarlo. Prima di morire, riuscirà però a dare un plausibile movente al delitto, salvando così, seppure in extremis, la sua traballante reputazione: “che per causa di due monete d’oro”, disse. L’assassino, preso dopo una fuga disperata sulla strada per Fiume, verrà giustiziato il 20 agosto su un palco eretto, simbolicamente, proprio di fronte a quell’Osteria Grande che aveva visto trapassare un così grand’uomo, e sul caso venne steso un pietoso velo di silenzio – o di omertà. Giacché l’incontro, e fatale per giunta, di un sì tanto pozzo di scienza e di cultura con un marchettaro qualsiasi non era cosa che, all’epoca, si potesse lasciare senza danno ai posteri e ai contemporanei. Al punto che, per anni, si congetturerà, come poi accadde anche con Pasolini, essere il movente da ricercarsi in un complotto internazionale, legato al ruolo svolto da Winckelmann alla corte di Vienna: forse, si ipotizzò in seguito, Winckelmann sarebbe stato latore di un carteggio segreto fra il cardinal Albani e Maria Teresa, che all’epoca stava estromettendo i gesuiti del suo impero dalle posizioni di potere. Il sospetto circa l’esistenza di un intrigo politico internazionale sarebbe avvalorato da una spiegazione che l’assassino aveva dato in primo momento nel processo, ovvero che sospettava essere il Winckelmann “una spia”, ma anche dallo strano interesse che il ministro von Kaunitz dimostrò nel corso di tutte le indagini, il quale pretese di essere informato giornalmente sullo svolgimento del processo, chiedendo anche che gli fossero spediti tutti gli averi dell’archeologo prima della loro consegna al cardinal Albani (nominato erede universale dal Winckelmann sul letto di morte), cosa che indusse molti a sospettare della presenza di chissà quali compromettenti carte nei bagagli del defunto.
Nel 1833, un monumento di mano dello scultore Antonio Bosa dedicato al grande studioso fu inaugurato il primo marzo 1833, e trovò collocazione al centro di una grande nicchia aperta nel ripiano più alto dell’ex cimitero, odierno Orto Lapidario. Un’iscrizione sul sarcofago riporta la dedica: “A Giovanni Winckelmann/cittadino di Stendal,/soprintendente alla tutela e allo scavo dei monumenti di Roma,/al colmo della fama per la sua raffinata cultura,/visitata Vienna, mentre si accingeva a tornare nella sede della sua carica,/fu assassinato in questa città per mano di uno straniero traditore,/il giorno 8 giugno 1768, all’età di 50 anni, 5 mesi e 30 giorni”. Nessun cenno alle motivazioni del gesto, ma piuttosto la strana accusa, verso l’assassino, di essere “straniero” e “traditore”. Le voci del complotto erano solo agli albori, ma continueranno a lungo ad affascinare i molti che in seguito si sarebbero occupati del delitto.
Evidentemente, il fatto che anche i grandi, siano critici o intellettuali o artisti, abbiano, come capita a molti uomini comuni, vizi, debolezze, sordide fascinazioni per il rischio, per gli incontri occasionali e per i bassifondi, non pare sufficiente a chi vuole invece vedere in loro solo i grandi intelletti e dei pozzi di cultura. Ma tant’è: l’Arcangeli non fu altro che un povero disperato disposto ad ammazzare per accaparrarsi un po’ di denari, e quanto al Winckelmann, fu certamente un grande studioso, a cui tuttavia stimolava la fantasia, con tutta evidenza, di mettere in gioco tutto se stesso, carriera, potere, riconoscimenti o anche la sua stessa vita, per godere di qualche ora di sesso occasionale spesa tra le pareti di una locanda, nella quale era sceso sotto falso nome. Tale è dopotutto il destino, e il temperamento, di certi uomini, siano o non siano dei grandi geni o degli altrettanto grandi intellettuali.
Le puntate precedenti degli aneddoti sulle vite degli artisti le potete trovare qua:
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Annibale Carracci, i tre ladroni e l’invenzione dell’identikit
Quando Delacroix inventò l’arte concettuale
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Il prossimo aneddoto sulla vita degli artisti lo trovate qua:
Benvenuto Cellini, Madame d’Étampes e quel Giove superdotato