Il Museo d’arte contemporanea di Lussemburgo ha inaugurato lo scorso 20 settembre la mostra Radical Software, curata da Michelle Cotton con la collaborazione di Sarah Beaumont e visitabile fino al 2 febbraio 2025. Identificando lo strumento tecnologico come estensione attiva dell’artista – al pari delle body-extensions di Rebecca Horn – le artiste in mostra adottano la computer art come lessico artistico ed esistenziale tramite cui indagare le dimensioni profonde dell’io e della loro contemporaneità.
L’esposizione del Mudam si propone dunque di esaminare la storia dell’arte digitale attraverso una prospettiva femminista, esponendo i lavori di artiste che si esprimono artisticamente attraverso il medium computazionale. È la prima mostra femminista sull’arte digitale e sul cyberfemminismo, che esplora le dimensioni tecnologiche pre-internet. “È il momento di presentare una mostra che consideri le artiste del XX secolo che, a lungo trascurate o escluse da ambiti artistici tradizionalmente maschili, come la pittura, si sono rivolte verso il settore, all’epoca ancora inesplorato, della tecnologia” afferma la direttrice Bettina Steinbrügge.
La mostra – cui titolo Radical Software si ispira all’omonima rivista fondata nel 1970 da un gruppo di artisti ispirati alle teorie di McLuhan – indaga un arco cronologico preciso, quello che dal 1960 giunge fino al 1991. Definendo la computer art come campo dell’arte in cui l’adozione del mezzo diviene condizione imprescindibile per la sua stessa identificazione, la sua genealogia si può far risalire tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta del Novecento. Radical Software attraversa dunque gli anni segnati dalla nascita dell’informatica a circuito integrato fino alla “microcomputer revolution” che democratizza l’uso dell’informatica, dislocando il computer dall’ambiente pubblico-aziendale alla dimensione privata, domestica. Indagando le sperimentazioni artistiche dal 1960 al 1991, la mostra restituisce un’attenzione fondamentale alla seconda ondata di femminismo corrispondente alle rivendicazioni e alle filosofie femministe, orbitando su questioni identitarie, sociali, giuridiche e sessuali.
Interrompendo la sua disamina nel 1991, la mostra indaga i primordi dell’arte digitale e computazionale: “le opere esposte precedono l’ascesa del World Wide Web e la proliferazione di informazioni e immagini digitali che ne sono seguite e hanno radicalmente rimodellato il modo in cui gli artisti lavorano fino a oggi”.
A partire dall’espressione Radical Software la mostra mira a inaugurare un nuovo di vedere: liberandosi dai panni stretti delle muse ispiratrici, le artiste memori del Manifesto cyborg di Donna Haraway, introducono un proprio spazio di sperimentazione artistica, spazio tecnologico-virtuale, che consente loro di muoversi liberamente nella dimensione, ancora fallocentrica, dell’arte. “Non è solo che “dio” è morto, è morta anche la “dea”; o meglio, vengono entrambi rivitalizzati nei mondi pervasi dalla politica microelettronica e biotecnologica” scrive Donna Haraway nel 1985.
A far saltare in aria le mura del gineceo – citando l’artista futurista Rosa Rosà – 50 artiste da 14 paesi differenti con oltre 100 opere esposte: Rebecca Allen, Elena Asins, Colette Stuebe Bangert e Charles Jeffries Bangert, Gretchen Bender, Dara Birnbaum, Inge Borchardt, Doris Chase, Hanne Darboven, Bia Davou, Valie Export, Dominique Gonzalez-Foerster, Barbara Hammer, Beryl Korot, Vera Molnàr, Huitric, Tamiko Thiel, Ulla Wiggen e altre ancora.
Rebecca Allen, già dagli anni ’70 esplora le potenzialità tecnologiche per esprimere dinamismo e osservare i fenomeni percettivi innescati dalla tecnologia più recente. “La sua opera d’arte pionieristica, che abbraccia cinque decenni e utilizza varie forme di media digitali, esplora idee su fisicità e virtualità, natura e illusione, corpo e mente e cosa significa essere umani mentre la tecnologia ridefinisce il nostro senso di realtà e identità” riporta il suo sito online.
Samia Halaby pittrice astratta contemporanea, si avvicina all’arte computazionale poiché crede che i nuovi approcci possano «trasformare i nostri modi di vivere e pensare, non solo nell’ambito dell’estetica, ma anche come un modo per scoprire nuove prospettive per i progressi nell’insegnamento, nella tecnologia e nella società in generale». Valie Export, artista orbitante nel campo della performance, già nel 1968 con Genitalpanik sconvolge i ruoli di genere culturalmente stabiliti, e porta all’estremo il concetto mulveyiano di male gaze, indossando pantaloni tagliati all’altezza del pube e imbracciando una mitragliatrice attraversa le file di un cinema porno di Monaco. Intorno alla fine degli anni ’80 investe i nuovi strumenti tecnologici delle simbologie e delle filosofie dominanti nel suo lavoro artistico: corpi sociali, differenze sessuali, strutture di potere, spazi. Adottando i nuovi strumenti del comunicare, citando McLuhan, le artiste esposte al MUDAM rivendicano uno spazio virtuale e sociale proprio, attraverso cui non solo osservano il mondo ma vi agiscono radicalmente.