A Bologna si può scoprire l’universo animale di Antonio Ligabue

La città di Bologna celebra per la prima volta con una grande esposizione antologica Antonio Ligabue, uno degli artisti più noti e controversi del Novecento. Tigri, leoni, galline e animali domestici accolgono il visitatore all’interno delle sette sale di Palazzo Albergati, immergendolo nell’universo animale attraverso cui il pittore inseguiva la serenità tanto agognata. Fino al prossimo 30 marzo, sarà possibile esplorare l’immaginario tormentato di Antonio Ligabue, che riconosceva sé stesso in queste creature così oneste e vere, assai distanti dal mondo degli uomini con cui intesseva un rapporto complicato. Curata da Francesco Negri e Francesca Villanti, la mostra percorre a ritroso le tappe dell’esistenza dell’artista, offrendo una panoramica di oltre 100 opere molte delle quali inedite, compreso un meraviglioso album di disegni.

Antonio Ligabue nasce a Zurigo nel 1889 dove, senza padre e figlio di una donna bellunese immigrata in Svizzera, viene dato subito in adozione. Da bambino manifestò gravi disagi psichici che lo condussero ad essere internato ben tre volte. A causa di queste problematiche, nel 1919 subisce l’espulsione dal Paese di origine, da cui è costretto a emigrare a seguito di una denuncia presentata dalla madre affidataria. Sarà proprio questo esilio a condurlo a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, luogo natio del padre, dove trascorrerà il resto dei suoi anni.

Lontano da casa, in preda a continui attacchi di ira e spesso rinchiuso, Ligabue riuscirà a sfogare il suo disagio esistenziale tramite l’arte, manifestando un precoce talento per il disegno. Lungo le rive del Po, l’artista esplora la dimensione pittorica, realizzando opere intrise di tragicità e rabbia, seppur connotate da una straordinaria capacità di trasfigurazione, costruendo uno stile unico nato dalla fusione di realismo e fantasia. Grezzo e naïf, eppure dotato di una stupefacente abilità espressiva, regalerà alla contemporaneità un punto vista inedito sulla realtà, che affonda le sue radici in una profonda comprensione del regno animale in tutte le sue sfaccettature.

Tra il 1928 e il 1929, dopo anni di stenti e vagabondaggio, la sua arte viscerale viene inevitabilmente notata da Marino Renato Mazzacurati, importante artista della Scuola Romana, che lo trascinerà fuori dai boschi e lo sistemerà in una baracca attrezzata con un letto e una piccola stufa all’interno della villa di famiglia, dove gli insegnò a utilizzare i colori. Tuttavia, per una prima vera e propria esposizione delle sue opere dovremo attendere il 1948.

Questo incontro cambierà per sempre la sua sorte, portandolo a un graduale riconoscimento sociale e al successo artistico. L’allestimento segue in ordine cronologico l’evolversi dello stile dell’artista diviso in tre sezioni principali. Nel primo periodo (1927-1939) riscopriamo lavori dedicati all’ambiente rurale, alla vita agreste e agli animali feroci, ancora riprodotti grezzamente, con un’evidente ingenuità tecnica e coloristica. Di particolare interesse risulta anche il focus sul circo e la corrida, che offre uno scorcio sulla brutalità dell’uomo nei confronti della bestia, mettendo in risalto il dolore degli animali, sottoposti alla sofferenza per il mero divertimento della gente.

Animali amati e osservati direttamente durante le interminabili ore trascorse al Museo Civico Lazzaro Spallanzani di Reggio Emilia, luogo affascinante per il pittore grazie al quale ha potuto studiare le caratteristiche fisiche dei suoi soggetti, qui fruibili oltre alla bidimensionalità delle rappresentazioni a cui era abituato.

Proseguendo lungo l’itinerario di mostra, entriamo nella seconda fase (1939-1952) e veniamo a contatto con pitture più complesse, dai colori caldi, varie tonalità di giallo, usate insieme alla terra di Kassel, al blu di Prussia e al rosso carminio, arricchiscono la tavolozza del pittore rinvigorendo le scene. Persino gli animali sembrano subire un crescendo, diventando più aggressivi e vigorosi; assistiamo a maggiore movimento e libertà nella composizione, prima prevalentemente frontale.

Ligabue cerca di conoscersi tramite gli animali, con cui si sente in affinità al punto da riprodurne versi e atteggiamenti. Ciò nonostante, dagli anni ’40 in poi indaga direttamente la propria immagine, divenuta una vera e propria ossessione, da cui scaturiscono ben 123 autoritratti. Dipinti che testimoniano la volontà di rendersi visibile, oltre a fornire una chiara rappresentazione dei momenti di stabilità alternati a istanti di straziante sofferenza. Sono immagini così dirette che, negli occhi del pittore, possiamo rintracciare sentimenti e paure rese vivide dalle pennellate veloci e materiche.

Simbolo del riconoscimento sociale e umano ottenuto grazie alla pratica pittorica è l’opera “Autoritratto con moto e cavalletto”, nel quale Antonio Ligabue si riconosce come pittore e uomo, presentandosi allo spettatore con la sua nuova identità.

Fiore all’occhiello dell’esposizione sono le sculture, pezzi rari per via dei pochissimi esempi disponibili, poiché molte opere sono state scaraventate con rabbia dall’artista stesso o addirittura non sono nemmeno state cotte. Prodotte con l’argilla che si depositava nella golena del Po dopo le piene, una fanghiglia rossastra, solida e ben amalgamata, restituiscono a pieno la rude semplicità dell’autore che spesso impastava la creta con la bocca, quasi si trattasse di un rito arcaico. Atteggiamenti insoliti tipici del pittore, come apprendiamo dalle parole di Sergio Negri: “Tra le tante manie, Ligabue aveva anche quella di parlare da solo. Era divertente ascoltarlo, naturalmente di nascosto. Teneva veri e propri dialoghi ad alta voce, arrabbiandosi e cambiando tono di voce”.

L’ultimo periodo (1952-1962), considerato il più prolifico, è caratterizzato da un segno più marcato, che definisce le figure, e da una tavolozza ancora più ricca, di cui sono un ottimo esempio le tele dedicate ai castelli svizzeri, la “Crocifissione” e il rarissimo “Leopardo e antilope e indigeno” eseguito con pastelli a cera e china su carta. In questa fase assistiamo all’ingresso di nuovi soggetti, forse dovuti alle commissioni dirette dei mecenati, come ritratti e temi religiosi mai trattati prima. Ultima perla della selezione è un album da disegni composto da 20 fogli e mai esposto prima, appartenente a una collezione privata e recentemente ritrovato, che Ligabue ha realizzato durante l’ultimo periodo della sua esistenza, mentre risiedeva in una locanda locale.

“Antonio Ligabue. La grande mostra” è prodotta, con il patrocinio del Comune di Bologna, da Arthemisia in partnership con il Comune di Gualtieri e la Fondazione Museo Antonio Ligabue. Completa l’esperienza di visita il ricco catalogo edito da Moebius.

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