La grande antologica di Edvard Munch “Il grido interiore”, aperta a Palazzo Reale di Milano fino al 25 gennaio 2025, sta suscitando un grandissimo interesse, non solo di pubblico ma anche di critica. Per questo motivo, dopo le recensioni di Chiara Canali e di Giovanni Negri da Brusciano, pubblichiamo ora un’altra articolata riflessione dello storico dell’arte Flavio Arensi.
“Questa mostra ruota attorno al “grido interiore” di Munch, al suo saper costruire, attraverso blocchi di colore uniformi e prospettive discordanti, lo scenario per condividere le sue esperienze emotive e sensoriali: un processo creativo che sintetizza ciò che l’artista ha osservato, quello che ricorda e quanto ha caricato di emozioni”. Gli organizzatori della mostra Munch, Il grido interiore (Palazzo Reale di Milano, fino al 26 gennaio 2025) sottolineano in questo modo il nodo centrale dell’operazione che vede il grande pittore norvegese tornare a Milano con una mostra monografica dopo quarant’anni, anche allora svoltasi in due tappe, anticipando la sede romana (Palazzo Bonaparte in piazza Venezia, dal 18 febbraio al 2 giugno 2025).
A prescindere dall’elenco di opere che in una recensione si possono nominare per la loro assenza o presenza (la qualità in mostra è costante e alta), sempre abbia ancora senso farlo, visto come sono malridotte la comunicazione e la cronaca artistica sottoposte alle necessità dei social e dei selfie, è chiaro e riuscito il tentativo della curatrice Patricia G. Berman di delineare la figura di un gigante, capace di leggere nell’animo umano e fra le sue vicissitudini, iscrivendosi nell’albo di quegli artisti che hanno scandagliato nel profondo il baratro della propria esistenza, che è esistenza collettiva. Forse un po’ troppo assecondando l’abitudine di rendere il percorso didascalico e “divulgativo” per il pubblico dei grandi eventi (ma anche dei piccoli), così che molti pascolano per le sale più intenti a leggere i cartelli e seguire le guide auricolari che non a fare quello per cui tutti saremmo chiamati: guardare i quadri.
Edvard Munch (1863 – 1944) indaga le possibilità della vita, il frammento di tempo che distacca l’amare dal morire, e il morire dall’amare; e queste possibilità non comportano per lui altro che una profonda angoscia (kierkegardiana). Ecco: amore, morte e angoscia sono i tre temi fondamentali permeanti la sua intera carriera e che si dispiegano nel Fregio della vita, l’installazione temporanea che accostando singole opere come tessere di un progetto unitario esprime “i dolori e le gioie di ciascun uomo, nella vita di tutti i giorni, visti da vicino”; insomma una specie di immaginifica sinfonia in cui testimoniare la semina e la germinazione dell’amore, il suo fiorire e sfiorire lasciando di fatto la sola angoscia e l’ineluttabile morte. La serie via via variata, è proposta in origine alla Secessione di Berlino del 1902 da Cassirer (insieme ad altri capolavori ad olio fuori tema), e comprende motivi ormai iconici come Il Bacio, Madonna, Vampiro, Malinconia, Angoscia, L’Urlo, Morte nella stanza della malata e Sul letto di morte, alcuni dei quali sparsi nel percorso espositivo milanese (nella loro variante incisoria quando non è presente il dipinto).
Con cento opere, Munch, Il grido interiore è suddivisa in una decina di sezioni tematiche, Allenare l’occhio, Fantasmi, Quando i corpi si incontrano e si separano, Tulla Larsen, Munch in Italia e L’universo invisibile, evidenziando per nuclei omogenei di soggetto alcune caratteristiche salienti, benché è abbastanza chiaro che l’autore abbia lavorato tutta la vita per rappresentare un’unica magnum opus. D’altronde una sua prerogativa è d’appropriarsi di sistemi linguistici differenti per trarne l’essenziale: dall’Impressionismo di Seurat (Dal viale Karl Johan, 1889; All’aria aperta, 1891), alla lezione di Gauguin e dei suoi seguaci, cui però manca la pari tensione espressiva colma di inquietudini e silenzi di morte, passando per l’immaginario figurale di Rodin, fino al clima simbolista mediato da Böcklin e Klinger, poi dentro al cuore della Secessione tedesca anticipando o ispirando le generazioni successive degli espressionisti (non solo).
Tanto a Parigi quanto a Berlino, dove si alterna per buona parte del tempo dal 1887 al 1908 e dove si intrecciano i destini di tanti colleghi, Munch si afferma velocemente nel sistema artistico, e sperimenta numerose tecniche, fra cui l’incisione, che non deve essere considerata in termini di subalternità con la pittura, anzi ha una importanza eccezionale anche nella fortuna e diffusione del suo lavoro, tanto più nell’Italia di inizio Novecento. Sono questi gli anni in cui egli mette a punto la sua particolare maniera di dipingere, non soltanto esercita con un coltello, o uno strumento analogo, profondi solchi sulla pittura secca (come fa appena ventitreenne, nel 1886, in uno dei suoi capolavori La bambina malata – in mostra una acquaforte del 1894), ma lasciando le opere all’aria aperta, calpestando le tele, principalmente cercando immagini asciutte e opache cui giunge grazie all’impiego studiato della caseina (facilmente insegnandola al pittore Nolde): l’obiettivo di quella che Munch chiama “cura da cavalli” per i suoi lavori risponde all’esigenza di smorzare in modo rapido i contrasti e i contorni troppo netti, in modo che i pigmenti assumano lo stesso carattere asciutto degli affreschi.
Allorché dipinge i suoi primi lavori intorno al 1880, la pittura a olio è largamente la principale tecnica usata in Norvegia, potendo contare sulla grande innovazione dei colori in tubetti e la preparazione di tele standard già pronte all’uso; come molti altri tuttavia Munch ne percepisce l’inadeguatezza, considerando con un certo disprezzo il concetto tradizionale dell’accurata fattura tecnica di un dipinto, ritenendo “Un buon quadro con dieci buchi meglio di dieci cattivi quadri senza buchi. Un buon quadro con un cattivo fondo è meglio di dieci cattivi quadri con un buon fondo. I buoni quadri non scompaiono. Un pensiero geniale non muore. Un disegno a carboncino su un muro può essere un’opera d’arte più importante di un dipinto eseguito con la massima cura. Molti pittori lavorano con tanta attenzione e precisione al fondo e all’esecuzione del quadro affinché sia conservato per l’eternità che poi ne perdono di vista la vera qualità. È cosi che nascono i cattivi quadri, tanto noiosi, che finiscono in solaio. Anche se col tempo un luminoso quadro espressionista perde un poco dell’intensità dei suoi colori, esso mantiene la sua anima per quanto possa svanire la bellezza. In ogni caso avrà creato nuovi obiettivi per pittori con altri intenti”.
A Palazzo Reale sono esposte anche due autoritratti fotografici del 1930, che fanno parte di un’eccezionale stagione di indagine identitaria che dura fino al 1943, attestando la modernità con cui il mezzo fotografico è assorbito all’interno della poetica di Munch, come uno dei tanti tasselli multilinguistici (si confrontino con quelle di Bacon). Per il compianto storico dell’arte Gianfranco Bruno, sono questi scatti che annunciano i dipinti degli ultimi anni (bello l’Autoritratto con testa di merluzzo sul piatto, 1940 – 42): «è un succedersi di stati psicologici che la tecnica dell’istantanea fissa con una verità sconcertanti”.
A proposito di Bruno, ma sarebbe da aggiungere anche Guido Ballo (e l’editore Gabriele Mazzotta), bisogna ricordare la “loro” antologica di Munch (la prima nel nostro paese, se non si conta la retrospettiva al padiglione Norvegese della Biennale di Venezia del 1954), proprio quarant’anni fa, come del resto evocano pur senza mai citarli gli organizzatori: e questa forse è la vera pecca. Non tanto l’assenza di opere più o meno imprescindibili dal punto di vista scientifico o “popolare” (L’urlo, per esempio, di cui si da comunque conto nella variante grafica), bensì l’aver tralasciato totalmente la prima interessante e profonda lettura critica dell’artista norvegese in Italia; dovendo per altro ammettere che oggi è sempre più difficile poter organizzare esposizioni con quella completezza scientifica: basti pensare che all’epoca si raccolgono duecentocinquanta opere di Munch, e probabilmente tutte quelle più importanti, contestualizzate in una visione storico-critica-psicologica ancora attuale.
Il direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina, a tal riguardo, nota – nel bel catalogo (edizioni Arthemisia – Museo Munch) – che “In quella mostra, […], era straordinariamente presente anche il famoso L’Urlo, ma come immagine guida fu scelta Le ragazze sul ponte e questo è un fatto che fa pensare a come sia cambiata nel tempo la sensibilità nei confronti di Munch considerando che, oggi, L’Urlo ha acquisito quell’incredibile iconicità che, a tutta evidenza, quaranta anni fa non aveva ancora raggiunto”, anche in virtù del fatto che un tempo la comunicazione stava al servizio di un’idea curatoriale, mentre adesso si comunica l’evento. Di Bruno sono stati ripubblicati tanto il saggio di Milano del 1985 (Mazzotta), che quello nel catalogo per la mostra di Lugano del 1998 (Skira), cui si aggiunge un ultimo testo edito nel 2008 per l’editore Nicomp, in una bella edizione curata da Luca Trabucco (Nicomp L.E., 2018) e forse qualche riflessione in più su come Munch sia stato letto dalla critica e dagli artisti italiani sarebbe parso stimolante, magari fra i tanti e notevoli eventi collaterali della mostra, anche a ragione della lezione offerta proprio da due magisteri importanti come quelli di Bruno e Ballo, che restano un baluardo intelligente per chi vuole indagare gli aspetti psicologici del genio norvegese.
Quando negli anni Ottanta Munch non è ancora un artista “di moda”, proprio Gianfranco Bruno ne investiga la ancor meno nota “seconda stagione”, allorché l’artista abbandona ogni scuola e lezione per tessere un nuovo modello di analisi pittorica e realizza capolavori come Amore e Psiche, La morte di Marat o Consolazione (tutti de 1907, gli ultimi due esposti in mostra), dove le pennellate filamentose e verticali tagliano lo spazio e il colore, come le identità: “La novità delle soluzioni presenti in queste opere (“All’inizio del secolo – scrive Munch – sentivo il bisogno di spezzare superfici e linee, sentivo che questo modo di dipingere poteva diventare una maniera… Dopo di che dipinsi una serie di quadri con ampie, pronunciate sequenze di strisce, spesso lunghe un metro, verticali, orizzontali e diagonali…”) prepara la fluidità pittorica e spaziale degli anni a venire, l’essenzialità plastica degli autoritratti e degli interni dopo il 1919, a partire dall’Autoritratto dopo la febbre spagnola (in mostra nella sezione Di fronte allo specchio)». Grazie a questo camminare «sul sentiero lungo l’abisso” – scrive nel 1998 lo storico ligure – si può affermare che “Nessun artista del XIX secolo ha vissuto sino in fondo con eguale consapevolezza la crisi della coscienza e della cultura occidentale: tale consapevolezza è poi la condizione che ha dominato l’arte del nostro secolo. In Munch la tragicità e dissoluzione della propria vita si fondono e si combinano con la tragicità e la dissoluzione della propria opera. Proprio questa consapevolezza ha consentito all’artista di presentarsi nel nuovo secolo tra i protagonisti di una nuova, desolata visione”.
Come molti altri colleghi, si pensi solo alla colonia tedesca di inizio XX sec. che anima Firenze, anche Munch non ha resistito a conoscere il Bel paese e il suo debito verso l’Italia è un aspetto poco conosciuto del suo lavoro. Visita il Paese per la prima volta nel 1899, iniziando da Firenze per terminare a Roma, dove si confronta con le tradizioni italiane – e con l’arte di Raffaello in particolare – rimanendone profondamente commosso. Torna nella penisola nel 1900, 1920, 1922 e trascorse un intero mese a Roma nel 1927, aggirandosi per i tesori della capitale. Per Berman “I dipinti monumentali dell’artista devono molto al Rinascimento italiano e ai dipinti di Michelangelo nella Cappella Sistina“, che egli considerava “la stanza più bella del mondo”: questa tipologia di opere nasce tra il 1906 e il 1907 quando Munch firma anche i ritratti immaginari di Nietzsche, l’autore aggredisce la superficie dipinta per riportare in una atmosfera impalpabile e psicologica ciò che si concretizza nel disegno, erodendolo, scavandolo.
Va sottolineato come l’interesse italiano di Munch possa desumersi fin dai primissimi disegni giovanili, probabilmente alimentato dal rispetto e dall’ammirazione dovuta allo zio, lo storico Peter Andreas Munch, figura eminente per la giovane nazione norvegese, morto d’improvviso di ictus a Roma l’anno in cui nasce il nipote e sepolto nel Cimitero Acattolico della città. Di questo legame famigliare viene esposto l’olio La tomba di P. A. Munch a Roma, 1927 e il forse ancor più bello studio dello stesso anno. Ma la sezione del percorso espositivo Munch e l’Italia riporta anche altri fogli dei taccuini-diari (che come tutte le opere in deposito al nuovo museo di Oslo sono accessibili on line), tra cui il disegno Ritratto di giovane uomo: Raffaello Sanzio (1877) di un Munch allora quattordicenne già chiaramente dotato, e un piccolo pastello del viaggio a Venezia del 916, Ponte di Rialto.
In Italia non sono conservate opere di Munch, se non la puntasecca Dr. Max Asch (1895) nella collezione del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Pinacoteca Nazionale di Bologna, acquisita insieme ad altre circa duemila fogli raccolti da quella strana figura di appassionata studiosa di letteratura e di grafiche che è stata Luciana Tabarroni. Però l’Italia è stata una vetrina importante della sua opera incisa, fin dalla mostra del bianco e nero di Roma del 1902, dove son presenti ben otto lavori grafici, poi continuando, la Biennale di Venezia del 1909 con un’unica litografia, Ceneri del 1899 (in laguna Munch torna solo dopo la sua morte nel 1954 con una grande monografica di oltre ottanta lavori) – oppure le rilevanti esposizioni di bianco e nero di Firenze del 1914 e 1927, senza contare la presenza alla Secessione romana del 1915 con le puntesecche La bambina malata e Ragazza alla finestra del 1894 e un carboncino, Attrazione (1895) oggi di proprietà del museo Munch di Oslo (in mostra c’è una bella variante litografica a colori), tutte circostanze in cui Boccioni, Romani, Viani (solo per citarne alcuni) possono aver visto, capito e introiettato il messaggio di Munch.
Da anni diversi studi approfonditi (su tutti cito quelli di Emanuele Bardazzi), hanno ricostruito le tante vicende intorno alle mostre di Bianco e Nero che sono state un momento fondamentale per la contaminazione linguistica fra artisti di nazioni diverse. D’altro canto è Vittorio Pica, strenuo difensore dell’arte calcografica, a introdurre In Italia in maniera articolata l’originale figura di Munch, associandolo a Ensor e Bardsley in un pezzo per “Emporium” del 1902.
Nel 1985, per recensire la mostra milanese, il Corriere della Sera chiama e mette insieme in pagina la storica Rossana Bossaglia e lo scrittore Claudio Magris, ma è Giovanni Testori a cercare di tradurre il grido dell’artista: “Così, in Munch, tutto resta, e per sempre, affogato dentro una sorta di salsa ematica, attraente e insieme ripugnante. Quando Munch si dispone ad estrarre da quella salsa, da quella bagna, da quel “salmi”, le sue figure e i suoi paesi, sembra che ognuno d’essi goccioli ancora, ancora grondi del sangue putrido e imperfetto di quel grembo universale. In lui i corpi degli uomini e delle donne sono vuoti e molli come altrettante meduse. Talvolta abbiamo l’impressione che, sotto i lunghi abiti che li rendono simili a fantasmi o a danzatori d’una “danza della morte” senza più nessuna teologia, non ci sia che il vuoto e che le facce ne emergano come gementi foruncoli o come gementi vesciche. È un mondo, quello di Munch, che non ha più o, forse, non ha mai avuto ossa. Ancorché in uno straordinario Ritratto del 1891 (l’opera non era in mostra, ndr), l’amico Prybszewski mostri di stringere nel pugno una tibia, quell’osso non sembra aver più consistenza d’un polipo o d’un aglio marcito dalla pioggia. La bellissima esposizione milanese, realizzata da Guido Ballo e da Franco Bruno, rivela, se mai ce ne fosse bisogno, la statura eccelsa di Munch e il peso condizionante che egli ebbe nel divenire più disastrato e disastrante dell’arte europea. In effetti, tutto ciò che atterrà all’espressione dovrà fare i conti con lui; dovrà bere i suoi veleni, le sue leni dolcezze stremanti, il suo rischio di consumare la pittura nella dizione letteraria; d’impigliare cioè, come fanno i capelli delle sue donne, accese da un eros demente e dannato, il fatto plastico e figurale nel fatto ‘verbale'”. E sono già passati quarant’anni.
Promossa dal Comune di Milano – Cultura, con il patrocinio della Reale Ambasciata di Norvegia a Roma, e prodotta da Palazzo Reale e Arthemisia, in collaborazione con il Museo Munch di Oslo, la mostra è arricchita da un palinsesto di eventi in diverse realtà culturali cittadine “per approfondire la figura dell’artista ed espandere i temi delle sue opere attraverso diversi linguaggi, dal cinema (da non perdere lo storico Edvard Munch film del 1974 di Peter Watkins, che ben riprende l’atmosfera dei quadri, ndr) all’architettura, dalla musica alla letteratura e molto altro”. E proprio le conferenze sulla letteratura sono quelle che possono aprire un ulteriore squarcio sulla grandezza di Munch e su le sue tante frequentazioni con la parola scritta, a cominciare dagli esiti letterari di Ibsen e di Strindberg.