A Verona è appena terminata la 19°edizione di ArtVerona: 140 gallerie, italiane e internazionali, che anche quest’anno puntano a una sempre maggior qualità della proposta espositiva con nuove iniziative e un programma culturale in collaborazione con le principali istituzioni pubbliche e private del territorio. L’intento della fiera, ormai divenuta un appuntamento imperdibile nel panorama contemporaneo nazionale, è quello di mettere in luce i punti di forza di un settore dal tessuto variegato e a tratti caotico razionalizzandolo, in questa edizione, attraverso la riduzione a tre sezioni espositive principali, suddivise in “Main Section”, “meed-career” e “nuove proposte”, a cui si aggiunge una nutrita partecipazione del mondo editoriale e degli spazi no profit.
Il messaggio dell’arte contemporanea viene così esteso agli universi imprenditoriali, coinvolgendo istituzioni pubbliche e private, collezioni, musei, gallerie, interi quartieri e i luoghi più suggestivi di una città conosciuta nel mondo per diversi aspetti, primo fra tutti quello culturale. I dati parlano di circa 10.000 collezionisti e professionisti dell’arte che annualmente accorrono ad ArtVerona che, oltre rappresentare ormai un punto di riferimento per il mercato e a valorizzare il sistema dell’arte italiano, mira alla focalizzazione e alla sensibilizzazione su alcune tematiche attuali che rappresentano una vera e propria urgenza per la collettività attraverso mostre collaterali nelle principali pubbliche e private del territorio.
È proprio questo il caso della bella mostra TOMORROWS – A Land of Water, a cura di Jessica Bianchera e Marta Ferretti, secondo appuntamento del ciclo Tomorrows, ospitata da Fondazione Cariverona nelle storiche sale di Castel San Pietro, l’imponente fortezza che dall’alto abbraccia con lo sguardo tutta Verona.
Il progetto espositivo è la prosecuzione di un filone transdisciplinare già avviato da anni dalla Fondazione Cariverona che intende restituire alla città alcuni degli spazi più iconici, generalmente non usufruibili come Castel San Pietro, portando avanti la riflessione sulle attuali problematiche ambientali attraverso l’arte contemporanea. L’intento è favorire la riscoperta e il buon utilizzo di preziose risorse del territorio, stimolando al contempo il dibattito ecologico e nuove considerazioni sui futuri possibili per la vita sul nostro pianeta, attraverso un’analisi ad ampio raggio selle dinamiche legate alla crisi idrica anche in senso sociale e geopolitico.
Nella suggestiva ambientazione dell’imponente ex fortezza austriaca veronese, con l’aiuto di un ben pensato allestimento e di un’attenta curatela, si ambientano perfettamente opere video e installazioni in un perfetto connubio tra antico e moderno, dando spazio a un gruppo di artiste di respiro internazionale: DAVRA research collective (Saodat Ismailova, Madina Joldybek, Zumrad Mirzalieva), Lina Dib, Elena Mazzi e Alberta Whittle, sono le autrici di un gruppo di opere incentrate sul complesso e attuale tema dell’acqua e dello sfruttamento delle risorse idriche, elemento cruciale tanto nella sua fisicità quanto nei suoi significati simbolici, che assume connotazioni di vera e propria emergenza laddove la scarsità di risorse idriche mina gli equilibri geopolitici e causa continue emergenze sociali.
La mostra si apre con THRESHOLD, monumentale installazione audiovisiva dell’artista canadese Lina Dib in collaborazione con Taylor Knapps, che cattura il momento appena precedente il tramonto su una spiaggia del Golfo del Texas, in cui il cielo assume una sfumatura rosata in un’apparentemente rilassante e ipnotico susseguirsi di onde che, al passare degli spettatori, improvvisamente si arrestano, video e audio rallentano e i colori si desaturano, in un inquietante rimbombo profondo, sentore di un’imminente accadimento.
L’opera, ispirata a Wave di Thierry Kuntzel e a Sunsets di Andy Warhol, attraverso la sua interattività esplora le specificità di un luogo e la nostra relazione con i sistemi naturali e riflette su come l’essere umano, causa diretta e indiretta di sempre più numerosi disastri ambientali, tenti maldestramente di controllare forze totalmente al di sopra delle sue possibilità, con un invito a ripensare i concetti di potere, interconnessione, ecologia.
A seguire, il percorso continua con l’installazione Taming Women and Waters in Soviet Central Asia (2024) del collettivo di ricerca DAVRA con un progetto rappresentato da Saodat Ismailova, Madina Joldybek e Zumrad Mirzalieva, con la collaborazione di Ruxsora Karimova per i ricami. L’opera esplora le connessioni storiche tra lo sfruttamento dell’acqua per la monocoltura del cotone e lo sfruttamento del lavoro femminile nell’Asia centrale di epoca sovietica, a partire dal 1917. Il progetto, nato per la Biennale Matter of Art di Praga, è incentrato sul Grande Canale di Fergana, tra Uzbekistan e Tajikistan, e l’incessante spinta alla modernizzazione da parte del regime socialista, ed esamina la manipolazione intenzionale delle risorse idriche e delle donne a fini industriali, che portò inevitabilmente a gravi conseguenze ambientali e sociali, come possiamo osservare ancora oggi, ad esempio, nei paesaggi dell’Uzbekistan.
Si prosegue poi con un’installazione multimediale della pluripremiata artista Alberta Whittle. Between a whisper and a cry (2019) evoca il tipico paesaggio caraibico delle Antille, luogo di provenienza dell’artista, con una narrazione che, mese per mese, attraversa la stagione degli uragani. Registrazioni d’archivio e filmati compongono un collage in cui i fantasmi del colonialismo sono simbolicamente evocati da riferimenti alla tratta transatlantica degli schiavi, in una mappatura di storie che si intrecciano fra crisi climatica, corpi umani e confini territoriali che legano l’impero alla catastrofe ambientale.
Nella sua narrazione e presentazione, inoltre, l’opera fa riferimento al libro della studiosa Christina Sharpe In the Wake: On Blackness and Being, impegnandosi a descrivere l’anti-Blackness come una sorta di fenomeno quasi atmosferico, che oscilla e sommerge, infrangendosi come un’onda. Interrogando i ricordi e la vita che queste acque racchiudono, l’opera chiede al pubblico di riflettere sui propri corpi e sul rapporto con gli effetti del colonialismo e della schiavitù, che ancora si ripercuotono all’esterno. Per l’artista questo lavoro costituisce quindi un’offerta, un atto di riparazione, un’insistenza sulla sopravvivenza e un invito alla liberazione.
Conclude il percorso The upcoming Polar Silk Road (2021) di Elena Mazzi, inquietante e ironica analisi del complesso intreccio tra economia, geopolitica, ecologia e mobilità all’interno delle regioni artiche, nelle zone maggiormente interessate dalle trasformazioni infrastrutturali e politiche legate alla Via Polare della Seta, con particolare attenzione all’Islanda. Questo asse, che connetterà Europa, Russia e Cina, si svilupperà come “rotta del nord” alternativa rispetto a quelle marittime tradizionali, sfruttando il sottosuolo dei mari artici, che contengono il 20% delle risorse globali del pianeta, tra cui petrolio, gas, uranio, oro, platino e zinco.
L’opera video, attraverso un testo rimodellato a mo’ di spot promozionale tratto da interviste a politici locali, ricercatori, pescatori e allevatori, offre un agghiacciante contrasto fra il tono entusiastico della voce narrante e le inquietanti immagini dei luoghi cardine di questa transizione, con gli evidenti devastanti effetti che l’operazione ha già causato.
Inaugurata venerdì 11 ottobre alle 21.30 con live performance di Lorenzo Senni e dj set di Ritmica a cura di Path Festival, nell’ambito del programma “Art&TheCity” di ArtVerona 2024, la mostra resterà visitabile fino al 10 novembre 2024 (ufficio stampa Tania Cefis). Nelle sue diverse sfaccettature con un approccio proattivo e ispirato verso il futuro.