Nelle puntate precedenti (Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Pt. 1 e Pt. 2) di questa nostra indagine sulla misteriosa morte del Rosso Fiorentino, abbiamo visto quanto debole e poco convincente sia la diceria, riportata dal solo Vasari, circa il “suicidio” del Rosso Fiorentino alla Reggia di Fontainebleu, alla corte di Re Francesco I, nel novembre del 1540. E abbiamo visto quanto questa affondi indiscutibilmente le sue radici in una serie infinita di veleni (metaforici e non solo), di colpi bassi, di sgarbi e di odi radicati tra le due fazioni che vedevano contrapporsi i fiorentini da una parte, capitanati dal Rosso Fiorentino e dal Cellini, e il Primaticcio, altrimenti detto “il Bologna”, dall’altra. E di come quest’ultimo godesse dell’appoggio e dei favori di quella che era all’epoca la donna più potente di Francia, Anne de Pisseleu d’Heilly, comunemente nota come madame d’Étampes, amante e favorita del Re.
Diciamo che, da questo momento in poi, è però possibile soltanto far delle congetture, o delle ipotesi per così dir di scuola, mancando in proposito le fonti documentarie (ed è già questo assai strano: come mai nessuna fonte coeva cita infatti un avvenimento tanto sorprendente ed eclatante quanto il suicidio del maggior pittore di corte di Re Francesco, limitandosi, tutti, anche in seguito, a riportare pappagallescamente la versione del Vasari, unico a fornire una assai stiracchiata spiegazione ad una morte tanto improvvisa e inaspettata?). Quel che è certo è che, per far luce su ciò che accadde in quel 14 di novembre del 1540, è bene guardare ancora un momento indietro, e precisamente al clima sempre più teso e minaccioso che si stava addensando in quei mesi e in quelle settimane nell’ambiente dei pittori di corte e dei loro vari collaboratori – una vasta schiera di decoratori, disegnatori, stuccatori, coloristi, intagliatori, dei quali il Vasari ci insegna nomi e cognomi e specializzazioni varie. Pittori e decoratori che, ci informa invece il Cellini, dopo la morte del Rosso, e forse anche prima (il che spiegherebbe l’accusa volta dal Rosso al suo ex collaboratore, esperto in stucchi e decorazioni, Francesco di Pellegrino, di averlo tradito e derubato), passarono in massa armi e bagagli, o meglio armi e pennelli, a servire il Primaticcio. Ma il Cellini, nelle sue memorie, racconta anche qualcos’altro: ad esempio che, poco prima delle morte del Rosso, si era trovato ad avere un terribile scontro con un tale. Era costui, ci racconta il Cellini, “un maestro di salnitri”…
Il maestro di salnitri e la rabbia di Madame
“Avevo”, scrive il pittore, “in questo mio castello (concessogli da Re Francesco in segno di stima per i suoi servigi, ndr) alcune piccole stanzette dove abitava diversa sorte di uomini”. Fra questi, dunque, continua il Cellini, vi era “un maestro di salnitri; e perché io volevo servirmi di queste piccole istanzette per certi mia buoni lavoranti todeschi, questo ditto maestro di salnitri non voleva diloggiare; e io piacevolmente più volte gli avevo detto che lui m’accomodassi delle mie stanze, perché me ne volevo servire per abituro de’ mia lavoranti per il servizio del Re. Quanto più umile parlavo, questa bestia tanto più superbo mi rispondeva: all’ultimo poi io gli detti per termine tre giorni”.
Fermiamoci dunque un momento. Abbiamo il Cellini, amico stretto ed alleato del Rosso nella disputa che lo contrappone al Primaticcio, a sua volta protetto da madame d’Étampes. Abbiamo un maestro di salnitri, che occupa una parte del castello lasciato al Cellini dal Re; e abbiamo il Cellini, che vuole “farlo diloggiare”, cioè sbatterlo fuori. Ma lui non vuol saperne, anzi: “se ne rise”, dice ancora il Cellini, “e mi disse che in capo di tre anni comincierebbe a pensarvi. Io non sapevo”, aggiunge il pittore, “che costui era domestico servitore di madama di Tampes: e se e’ non fussi stato che quella causa di madama di Tampes mi faceva un po’ piú pensare alle cose, che prima io non facevo, lo arei subito mandato via; ma volsi aver pazienzia quei tre giorni; i quali passati che e’ furno, sanza dire altro, presi todeschi, italiani e franciosi, con l’arme in mano, e molti manovali che io avevo; e in breve tempo sfasciai tutta la casa, e le sue robe gittai fuor del mio castello. E questo atto alquanto rigoroso feci, perché lui aveva dettomi, che non conosceva possanza di italiano tanto ardita che gli avessi mosso una maglia del suo luogo”.
Sfidato nel suo orgoglio, dunque, il Cellini non se lo fa dir due volte, e lo sbatte fuori di prepotenza, distruggendo ogni cosa si trovasse nelle stanze in cui il maestro di salnitri appunto abitava. “Io sono il minimo italiano della Italia, e non t’ho fatto nulla appetto a quello che mi basterebbe l’animo di farti, e che io ti farò, se tu parli un motto solo”, sostiene il Cellini d’aver detto al malcapitato. Al che “quest’uomo, attonito e spaventato, dette ordine alle sue robe il meglio che potette; di poi corse a madama de Tampes, e dipinse uno inferno” (“Per la quale cosa”, dice sempre il Cellini, “madama de Tampes ebbe ardire tanto, che la disse al Re: “lo credo che questo diavolo una volta vi saccheggerà Parigi”). Ecco, dunque, un precedente che potrebbe portare un po’ di luce in questo mistero. C’è un maestro di salnitri (senz’altro dunque, come altri, esperto di veleni), che era anche “domestico servitore” di madama di Tampes; la quale era, come sappiamo, protettrice del Primaticcio, e fortemente avversa al Cellini e al Rosso.
Colpi bassi, invidie e sotterfugi
Che accadde dunque, da far così precipitare la situazione verso il tragico epilogo che conosciamo? Non possiamo saperlo con precisione, perché nessuna cronaca lo riporta. Sappiamo però che, all’improvviso, prima della misteriosa morte del Rosso Fiorentino, il Primaticcio viene fatto partire in fretta e furia da Fontainebleau: quasi che, prevedendosi qualche oscuro avvenimento, si volesse proteggerlo e metterlo al riparo da eventuali conseguenze. Il Vasari, con l’acrobatica diplomazia che lo contraddistingue, si limita a dirci che Re Francesco “lo mandò l’anno 1540 a Roma a procacciare d’avere alcuni marmi antichi, nel che lo servì con tanta diligenza il Primaticcio, che fra teste, torsi e figure ne comperò in poco tempo centoventicinque pezzi”.
Dal canto suo, il Cellini fornisce una versione assai diversa di questa improvvisa partenza. E lo fa raccontando un’altra storia di colpi bassi, minacce e sotterfugi. Dice infatti costui che un giorno, andando a trovare il Re che voleva parlargli, per commissionargli delle monete, s’imbatté in uno dei suoi tesorieri, che gli disse: “Benvenuto, il Bologna pittore (il Primaticcio, ndr) ha aùto dal Re commessione di fare il vostro gran colosso e tutte le commessione che ‘I nostro Re ci aveva dato per voi, tutte ce l’ha levate, e datecele per lui”; il che stava a significare che il Re aveva dato al Primaticcio l’incarico di realizzare quella grande statua d’argento, a cui il Cellini stava da gran tempo lavorando, che avrebbe dovuto rappresentar Giove, essendo la prima d’una serie di candelieri a grandezza naturale, dodici colossi che avrebbero dovuto rappresentare i principali dèi dell’Olimpo: e tutti quanti, il Re li aveva commissionati al Primaticcio.
“A noi”, continua dunque il tesoriere, “c’è saputo grandemente male, e c’è parso che questo vostro italiano molto temerariamente si sia portato inverso di voi”. Aggiungendo poi: “costui ve la toglie solo per il favore di madama di Tampes”. Al che il Cellini, meravigliato, disse: “Come è egli possibile che io non abbia mai saputo nulla di questo?”. “Allora mi disse che costui l’aveva tenuta segretissima, e che l’aveva aùta con grandissima difficultà, perché il Re non gnene voleva dare; ma le sollecitudine di madama di Tampes solo gnene avevan fatto avere”.
Cellini passa alle maniere forti
È ancora il biografo del Primaticcio a raccontarci la versione dal punto di vista del “Bologna”: “Volendo Re Francesco”, scrive, “ornare la fontana maggiore di Fontainebleau con una Statua colossale di bronzo, che rappresentasse Marte, ne aveva fatto parola con Benvenuto, ed egli subito erasi esibito di farla, ed il Re avevagliela commessa”. “Ma”, avverte ancora il marchese biografo, “sempre arrogante ed impertinente il Cellini, avendo l’impudenza di non risparmiar motti e dileggi a madame de Tempes, che era molto avanti nella grazia del Re, essa per abbassare tanta indegnità non esitò a persuadere il Re che Benvenuto, troppo caricato di lavori risguardanti l’arte sua propria di orefice, non avrebbe potuto se non tardi adempiere la commissione della Fontana, lavoro che sarebbe stato meglio ideato, e più presto eseguito dal diligentissimo Primaticcio”. “Al che”, conclude significativamente il marchese, “dovette egli ubbidire” (dal che si desume quanto potere aveva codesta donna sul sovrano, tanto da farlo ubbidire con poche parole).
Cellini, furibondo, si reca allora a casa del Primaticcio, il quale, mellifluo (“con certe sue lombardesche raccoglienze”), gli chiese qual buon vento lo conducesse lì, e gli offrì da bere. “Allora io dissi: ‘Misser Francesco, sappiate che quei ragionamenti che noi abbiamo da fare insieme non richieggono il bere imprima: forse dappoi si potria bere’. Cominciai a ragionar seco dicendo: ‘lo so che voi sapevi che il Re m’aveva dato da fare quel gran colosso, del quale s’era ragionato diciotto mesi, e né voi né altri mai s’era fatto innanzi a dir nulla sopracciò”. E continuava ricordando che aveva mostrato al Re i suoi modelli, e che per tanti mesi non ne aveva più discusso; fino a quando, “solo questa mattina ho inteso che voi l’avete auta e toltola a me; la quale opera io me la guadagnai con i mia maravigliosi fatti, e voi me la togliete solo con le vostre vane parole”.
“A questo il Bologna rispose e disse: – 0 Benvenuto, ogniun cerca di fare il fatto suo in tutt’i modi che si può: se il Re vuol cosi, che volete voi replicare altro? L’opera è mia”. E il Cellini, di rimando: “aprite gli orecchi e intendetemi bene… Vi dico cosi, che se io sento mai in modo nessuno che poi parliate di questa mia opera, io subito vi ammazzerò come un cane: e perché noi non siamo né in Roma, né in Bologna, né in Firenze – qua si vive in un altro modo se io so mai che voi ne parliate al Re o ad altri, io vi ammazzerò a ogni modo. Pensate qual via voi volete pigliare”.
“Al Bologna”, commenterà asciutto il biografo del Primaticcio, “non parve vero di rinunciargli il giorno dopo vilmente l’avuta ordinazione”. “L’altro giorno”, racconterà invece il Cellini, “venne a Parigi il Bologna a posta, e mi fece chiamare: andai e trovai il detto Bologna, il quale con lieta faccia mi si fece incontro, pregandomi che io lo volessi per buon fratello, e che mai più parlerebbe di tale opera, perché conosceva benissimo che io avevo ragione”.
Una partenza assai provvidenziale
“In questo tempo”, scriverà dunque il Cellini, “il Bologna pittore sopra ditto dette ad intendere al Re, che gli era bene che Sua Maestà lo lasciassi andare insino a Roma, e gli facessi lettere di favori, per le quali lui potessi formare di quelle prime belle anticaglie, cioè il Leoconte, la Cleopatra, la Venere, il Comodo, la Zingana e Appollo. Cosí”, chiosò acido il Cellini, “andò nella sua malora questa bestia”.
Leggermente diversa, tuttavia, la versione che diede di questa partenza il marchese Bolognini Amorini: è pur vero, dice, che il Primaticcio fu spedito effettivamente a Roma su ordine del Re “per procurare di acquistar marmi antichi, teste, busti e statue singolari, onde adornarne il suo Fontainebleau”; ma, aggiunge il biografo, il vero motivo di tale partenza improvvisa era da attribuire a una causa assai diversa: “Saputesi”, scrive infatti il marchese, “quante gelosie avesse il Rosso” nei confronti del Primaticcio, oltre che la “condotta infame tenuta dal Cellini” nei confronti di costui, e per tema che questi fatti “non avessero conseguenze funeste”, “divisò di spedirlo in Italia”.
La casua di questa improvvisa e assai provvidenziale partenza del Primaticcio, divenuto da qualche tempo il preferito del Re e di tutta la corte (ma soprattutto di Madame Étampes), è dunque proprio da ricercarsi nella faida ormai più che conclamata tra i fiorentini e colui che da tutti era conosciuto come “il Bologna” – ovvero il Primaticcio –, e nel rischio che questa faida potesse portare a “conseguenze funeste”; ovvero, alla morte di qualcuno, dall’una o dall’altra parte della barricata.
3 – continua
In questa rubrica vi raccontiamo storie, aneddoti, gossip e segreti, veri, verosimili o fittizi riguardanti l’arte e gli artisti d’ogni tempo. S’intende che ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti sia puramente casuale…
La parte precedente di questo aneddoto la potete trovare qua:
Chi ha ucciso Rosso Fiorentino? Arsenico e vecchi rancori alla corte del Re di Francia (Pt. 2)
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