Nam June Paik e non solo: la cultura coreana in mostra al MAO di Torino

La mostra “Rabbit Inhabits the Moon. L’arte di Nam June Paik allo specchio del tempo”, inaugurata il 19 ottobre al MAO Museo d’Arte Orientale di Torino, rappresenta un evento di grande rilievo nel panorama artistico contemporaneo. Curata da Davide Quadrio e Joanne Kim, in occasione del 140° anniversario delle relazioni diplomatiche tra Corea e Italia, l’esposizione esplora il dialogo tra le opere di Nam June Paik, pioniere della video arte, e una serie di artisti coreani contemporanei. Il progetto si arricchisce con l’inclusione di preziosi manufatti coreani provenienti da collezioni internazionali e istituzioni prestigiose.

Al centro dell’esposizione, Nam June Paik si distingue come una figura che ha saputo intrecciare tradizione e modernità in modo innovativo. Nato a Seul nel 1932 e trasferitosi negli Stati Uniti, Paik ha esplorato il rapporto tra tecnologia, mass media e spiritualità. Le sue opere pongono al centro della riflessione il potere dei mass media, ma sempre con una vena critica e ironica che sfida i canoni della società consumistica. La mostra prende ispirazione da un’installazione del 1996 di Paik, dove un coniglio in legno osserva la luna su uno schermo televisivo, evocando l’antico mito del coniglio sulla luna, un simbolo condiviso da diverse culture dell’Asia orientale.

Il dialogo tra antico e contemporaneo, uno dei temi portanti della mostra, emerge chiaramente nella convivenza tra le opere di Paik e i manufatti coreani tradizionali. Questi oggetti d’arte antichi, selezionati da collezioni come il Musée Guimet di Parigi e il Museo delle Civiltà di Roma, non sono semplici ornamenti, ma elementi che interagiscono con le installazioni contemporanee, creando una narrazione fluida e immersiva. Questo continuo rimando tra passato e presente si riflette anche nell’allestimento, che evita schemi cronologici fissi per offrire un’esperienza in cui i simboli e le tematiche si intrecciano e riaffiorano lungo il percorso espositivo.

Uno degli aspetti più affascinanti della mostra è il richiamo allo sciamanesimo, tema trattato con particolare attenzione grazie alla consulenza di Kyoo Lee, curatore e professore di Filosofia a New York. Lo sciamanesimo non è visto solo come un richiamo alle radici culturali coreane, ma come una chiave di lettura per interpretare l’opera di Paik, che ha spesso incorporato elementi spirituali e rituali nelle sue creazioni. Una sezione della mostra esplora proprio le pratiche sciamaniche attraverso una proiezione curata dal fotografo Chanho Park, che invita il pubblico a riflettere su queste antiche tradizioni e la loro attualità.

Il suono e la musica giocano un ruolo fondamentale nel progetto espositivo. Nam June Paik, con la sua partecipazione al movimento Fluxus e la collaborazione con artisti come la violoncellista Charlotte Moorman, ha sempre esplorato la dimensione sonora come parte integrante della sua arte. In questa mostra, l’elemento musicale viene ulteriormente sviluppato grazie a nuove produzioni commissionate appositamente per l’evento. Jiha Park, compositrice coreana, ha creato per l’occasione “Sounds Heard from the Moon. Part 2”, una composizione che utilizza strumenti tradizionali coreani come il piri e il saenghwang, fondendo la musica antica con un linguaggio minimalista contemporaneo. Questo approccio non solo rende omaggio alla tradizione, ma la rinnova con un’estetica modernissima basata su ripetizione, variazione e processualità.

Un’altra opera musicale di grande impatto è “Nocturne No. 20 / Counterpoint” di Kyuchul Ahn, che rivisita la musica di Chopin in modo del tutto originale. La performance, che accompagna l’installazione, vede il progressivo smontaggio dei martelletti del pianoforte, portando alla graduale scomparsa del suono. Questa decostruzione sonora offre una metafora potente del passaggio dal pieno al vuoto, dal suono al silenzio, esplorando i confini tra presenza e assenza.

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