Parigi chiama, il mondo dell’arte risponde. Art Basel al Grand Palais, le aste di arte moderna e contemporanea di Christie’s e Sotheby’s, l’Asia Now – Paris Asian Art Fair alla Monnaie de Paris, il Surrealismo al Centre Pompidou e le più belle gallerie d’Europa aperte al pubblico. E c’è anche un po’, anzi molta, Italia in queste frenetiche settimane parigine. Quasi sessant’anni dopo la collettiva “Fuoco Immagine Acqua Terra” realizzata nella galleria L’Attico di Fabio Sargentini e dall’emblematica mostra del critico Germano Celant alla Bertesca di Genova, il vento dell’Arte Povera arriva alla Bourse de Commerce di Parigi in una mostra il cui tempismo risulta straordinariamente appropriato nell’era dominata dalla tecnologia e dal successo dell’intelligenza artificiale.
Più di 250 opere, tra dipinti, sculture e installazioni firmate da tredici poveristi: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Ognuno di loro è associato a una personalità, a un’epoca o a un materiale che ha avuto una profonda influenza sulla sua poetica, come Giorgio de Chirico per Paolini, Kazimir Malevič per Kounellis e un’icona di Sano di Pietro per Marisa Merz.
La mostra “Arte Povera”, inaugurata il 9 ottobre, è stata immaginata dalla curatrice Carolyn Christov-Bakargiev per raccontare le tappe del movimento dalla sua nascita in Italia all’influenza internazionale. Una cinquantina di lavori storici ed emblematici della collezione Pinault è abbinata alle opere provenienti dagli archivi del Castello di Rivoli, della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT di Torino, dal Kunstmuseum Liechtenstein di Vaduz, dal Museo e Real Bosco di Capodimonte di Napoli, dalla Galleria d’Arte Moderna (GAM) di Torino, dal Centre Pompidou di Parigi e dalla Tate di Londra.
All’esterno della struttura, Idee di pietra – 1532 kg di luce è il simbolo della rivoluzione poverista alla fine degli anni Sessanta e della sua propensione a esplorare le relazioni tra natura, uomo e cultura, spingendo il pubblico verso un’esperienza sensoriale e immediata, oltre che concettuale. Nell’opera di Giuseppe Penone grossi massi campeggiano su un albero nudo, annullando le leggi della fisica e del ciclo di vita dell’arbusto. Sguardo alla Bourse e, dalla destra dell’ingresso, Numeri di Fibonacci di Mario Merz si irradia intorno all’edificio incoraggiando lo spettatore a ingaggiare il calcolo matematico e godere del gioiello realizzato dall’architetto giapponese Tadao Ando.
Nella prima sala, alcuni scatti storici riprendono i momenti di discussione e di elaborazione installativa dei maestri dell’arte contemporanea. Comincia così il contatto con alcune delle loro opere più iconiche e il racconto prosegue nella “Rotunda”, che cattura lo spirito collettivo del movimento. Al di sotto di Macchia del 1968 di Gilberto Zorio, l’installazione di altre opere chiave rievoca la modalità con cui l’Arte Povera si estendeva sul pavimento del Deposito d’Arte Presente, un grande spazio aperto alla fine degli anni Sessanta a Torino, dove gli artisti potevano installare le opere a loro piacimento, senza inaugurazioni formali. Nella sala “Rotunda”, tra la serie di lavori posizionati sul suolo, diventa evidente l’importanza dell’orizzontalità, un concetto correlato alla nozione che un’opera d’arte non è un dipinto o una scultura, ma un campo di energia e un luogo da attraversare. È ciò che Luciano Fabro chiama habitat nell’opera Lo Spirato, un ambiente in cui il pubblico sfida l’attenzione e la consapevolezza delle proprie percezioni incarnate nello spazio.
Questa esperienza fenomenologica di sé nel luogo e nel momento presente è contenuta in modo particolare in tre opere della mostra: Lo Spazio di Giulio Paolini, dove le otto lettere che compongono le parole sono appese tutte intorno alle pareti, all’altezza degli occhi, la prima struttura di ghiaccio di Pier Paolo Calzolari del 1967 e nell’Autoritratto di Alighiero Boetti del 1993-1994. Dalla soggettività collettiva e dall’ethos di gruppo della “Rotunda”, il soffio immaginario del vento trasporta nelle stanze delle Galeries, dedicate individualmente ai tredici poveristi.
La Venere degli stracci di Pistoletto, il Cristo velato di Anselmo, la Mappa di Boetti, l’Italia rovesciata di Fabro, le Finte sculture di Pascali, l’Oroscopo come progetto della mia vita di Calzolari. La proposta è emozionante, per chi sta iniziando un percorso nel mondo dell’arte e per chi a quella serata romana del 1967 era presente.
Suggestiva la sala dedicata a Jannis Kounellis, in cui si assaggia l’essenza dell’Arte Povera e la storia personale dell’artista greco. La rosa e la sua silhouette tracciata con il carbone, il letto con i peli di lana e l’iconica scritta Senza titolo (Bar). Alcune fotografie ricordano la sua azione performativa alla Galleria L’Attico quando, nel 1969, riunì dodici cavalli disposti ordinatamente lungo i muri della sala, come se fossero delle sculture. Tuttavia, il fatto che si trattasse di animali vivi creava una tensione tra il dinamismo naturale delle creature e l’immobilità tipica della mostra d’arte.
La stanza di Emilio Prini è enigmatica, costringe all’osservazione, alla lettura e alla consapevolezza nel tempo e nello spazio. Cinque sensi per un ambiente (Perimetro di piombo): cinque piccoli pacchetti di piombo definiscono lo spazio per il visitatore e mettono in gioco le percezioni e i movimenti corporei. Prini resiste all’idea che l’artista debba essere “creativo” e, pertanto, anche al mercato dell’arte, esplorando forme di autenticità e unione.
Un destino dissimile rispetto ad alcuni suoi colleghi, la cui poetica è andata a contaminarsi con l’esigenza di sopperire alle richieste commerciali e al conseguente incremento della domanda da parte dei più ambiti collezionisti.