Al cinema è tutto più bello, non solo le donne e il mare, ma anche un film brutto.
Ma c’è bisogno di tutto il resto per saltare dalla sedia, per dimenticare che si è in sala e vedere l’arte, con il suo linguaggio che penetra e sfugge, che ti rapisce e confonde come una finta di Maradona: ben riuscita quanto più finge la realtà.
L’ultimo film di Sorrentino, Parthenope, sembra un esercizio di stile, tante prove di un possibile film, fatto al ciclostile come certi atti amministrativi: ripetuti uguali cambiando solo i nomi.
Un guazzabuglio di sentimenti e frasi. Tutte le frasi sono troppo vere, talmente vere che sono vere anche al contrario, “la schiena è pornografia, di una donna mi piace tutto il resto”, oppure “io sono Parthenope e mi vergogno di tutto”. La retorica che era l’arte del bel parlare divenne poi eristica, ossia abilità verbale fine a se stessa, senza vertigine né poesia.
I personaggi, come in una pubblicità, compaiono per dire la loro citazione a Celeste della Porta, che ha il nome più evocativo del suo modo di recitate. Sembrerebbe eterea, ma in realtà è solo in fuga da se stessa e dai buoni sentimenti e si concede solo a chi la sorprende per contrarietà: offrendole ciò che non conosce e che non vuole. Un po’ poco per dirsi giovinezza.
Il sorriso realistico del fratello è per lei inaccessibile. Così tutti i personaggi cercano diépater le bourgeois infliggendoci la loro verbosa, ridondante malia a buon mercato.
Eppure, solo la Sandrelli porta Sorrentino in alto, con i suoi sguardi, i sorrisi accennati e i silenzi loquaci. Lei comincia ora che è finita.