Con un viaggio lungo più di un secolo, la mostra “Pinakothek’a”, visitabile fino al 30 marzo 2025 (Palermo, Palazzo S. Elia), ripercorre i momenti salienti della storia dell’arte italiana ed occidentale. Le opere in mostra sono solo una parte della ricca collezione Elenk’Art – un corpus di più di quattrocento pezzi– ma rivelano già la straordinaria capacità di scelta dei collezionisti: le opere selezionate esprimono a pieno la tensione culturale del proprio tempo, conferendo all’intera collezione un alto valore qualitativo.
Al piano terra del palazzo S. Elia, nei locali della ex “cavallerizza”, le braccia di “Giobbe” (Francesco Messina) accolgono i visitatori all’interno del percorso espositivo. Tra le prime opere che si possono ammirare vi sono quelle di Cagnaccio, Pirandello e De Chirico. In particolare mi colpisce un’opera che Alberto Savinio dedica ai genitori, probabilmente per la straordinaria forza di quei caratteri dipinti come fossero scolpiti sulla sabbia. È da qui che incomincia la narrazione di Pinakothek’a, ed è da qui che si dipana il lungo viaggio che attraversa un secolo e mezzo di storia per giungere fino alla vivace quadreria situata all’ultimo piano.
I curatori Sergio Troisi e Alessandro Pinto ne hanno attentamente ideato il percorso espositivo. Ogni sala dialoga perfettamente con la precedente e con la successiva, e la mostra può quindi essere visitata sia seguendo un preciso ordine cronologico, sia attraverso i rimandi e i dialoghi tra le opere, gli artisti e i movimenti.
Il piano nobile si apre con una sala tutta dedicata all’immancabile Guttuso, sapientemente raccontato attraverso opere che vanno dagli anni ’50 fino agli anni ‘70 del Novecento. Nella sala adiacente un “cinegiornale”, girato in super8 e diretto dal regista Salvo Cuccia, ricorda il cinema d’avanguardia anni ’50. In esso si narra la passione per il collezionismo dei Galvagno e il suo intrecciarsi con l’attività imprenditoriale della ditta Elenka.
Il racconto prosegue con gli artisti non figurativi di Forma 1 (Accardi, Consagra e Sanfilippo per citarne solo i fondamentali) e con il Gruppo degli Otto (Afro, Vedova, ecc.), fino all’informale, con autori italiani e stranieri. Nelle sale successive entrano in scena gli anni ’60 e ’70 con l’arte cinetica, la Op art, le tele estroflesse, la pittura analitica e le poetiche dell’oggetto. Il grande salone situato alla fine della lunga enfilade del piano nobile è dedicato al Nouveau Réalisme di Christo, Arman, Cesar, Oppenhem, esso si conclude con una grande tela di Hermann Nitsch che, nera e luccicante, mi riporta alla mente la sacralità di un altare.
A questo punto potrebbe sembrare già abbastanza, ma il viaggio è solo a metà e nelle sale successive entra in scena la figurazione delle neo avanguardie e un corpus molto intenso di opere di Bruno Caruso, con i suoi interessanti studi per il Trionfo della morte.
La mostra si conclude nella sala delle Capriate con un intero piano dedicato all’arte del ventunesimo secolo. Ampio spazio è riservato alla scena siciliana con le grandi tele della cosiddetta Scuola di Palermo (Bazan, De Grandi, Di Marco, Di Piazza), con le sculture parlanti di Daniele Franzella (Qualcuno non sia solo, 2013) e con l’opera “Unicorn” di Francesco Simeti nella sala immersiva. Tra le tante opere in mostra si scorgono quelle di Loredana Longo, Andrea Cusumano, Andrea Buglisi, Linda Randazzo e Nicola Pucci.
L’ultima sala è allestita come se fosse una quadreria dei palazzi nobiliari del seicento. È qui che, in un dialogo serrato tra le opere, si annullano i contesti e le situazioni, ed è qui che artisti degli anni venti come De Chirico dialogano con i contemporanei in un’immagine corale e metastorica, che conclude il viaggio/racconto come a volere esprimere in un solo colpo d’occhio il senso dell’intera collezione Galvagno.
Pinakothek’a è un’operazione riuscita, per il semplice fatto che le grandi collezioni private, proprio perché create da appassionati collezionisti, offrono quasi sempre una visione unica del mondo dell’arte. Si potrebbe anzi considerala un’operazione win-win, perché da un alto gli oggetti che fanno parte della collezione, essendo questa di buona qualità, tendono ad acquisire uno status e un significato unico. Dall’altro il collezionista, oltre ad avere un ritorno di immagine non trascurabile, ha la possibilità di esprimere il proprio punto di vista e la propria visione dell’arte nelle sedi più prestigiose.