Intervista a Daniele Franzella, attualmente in mostra presso due importanti sedi palermitane: la RizzutoGallery – nella tripersonale GARDEN – e la Fondazione S. Elia – nella collettiva PINAKOTHEK’A Da Cagnaccio a Guttuso da Christo e Jeanne-Claude ad Arienti.
Mi trovo presso la RizzutoGallery, dove attualmente Daniele Franzella è in mostra con una serie di opere riferite al giardino inteso come soggetto, una tripersonale con Loris Cecchini e Richard Deacon in cui gli artisti propongono visioni diverse e complementari dell’idea di giardino. Scegliamo di dialogare di fronte alla sua composizione costituita da un affresco digitale (Locus solus, 2024) e da due sculture in ceramica e legno (Il giardiniere e Marygold, 2024)
Perché qui l’immaginazione è la più geniale delle verità?
Per un capovolgimento di quello che sembra vero e reale. Il giardino è un luogo di progettazione e di mediazione molto rigorosa. L’idea che sta dietro la mostra GARDEN, vuole guardare alle diverse declinazioni del giardino, alla sua forma simbolica. Dal giardino all’inglese, che nella sua natura o vocazione sembra avere un aspetto naturale, quasi selvaggio e che in realtà è un esercizio di composizione e di controllo tutt’altro che spontaneo, al giardino all’italiana che è l’espressione perfetta di formule matematiche. Ma c’è tanto altro. Per esempio a me interessava il giardino come luogo dove si accumulano storie e racconti. Un luogo idealmente irregolare, ripido, che conduce anche in una dimensione più onirica.
Una visione disturbante
Si, se vuoi è un luogo disturbante. Perché quello che ci viene in mente, pensando al giardino, è di trovare un angolo di pace, dove sentire i profumi, incontrare i colori della natura e stare alla frescura degli alberi. Il mio giardino sembra sovrascrivere a tutto questo dell’altro.
All’inizio sembra qualcosa di bello, ma è solo apparenza, avvicinandoti ti accorgi che si tratta di un luogo pieno di pericoli
Questo perché le azioni che vengono compiute in questo giardino, appaiono un pò insensate. Qualcosa di non richiesto o atteso che lo rendono un luogo inquietante e forse sì, di pericolo. Il mio Locus Solus presenta diverse zone buie e oscure. Varchi dove le figure entrano e non sai cosa succede dopo.
Qui utilizzi una tecnica molto interessante: l’affresco digitale
C’è una lunga fase preparatoria che passa attraverso un lavoro in digitale. Dalle scansioni di immagini che prendo da enciclopedie, o riviste, a rielaborazioni di cose pescate dal web o disegnate da me. Quest’opera (Locus Solus), ad esempio, parte dall’ingrandimento di una fotografia molto piccola presa da un volume sugli Orti e i giardini. Dopo un’interpolazione molto spinta ho cominciato a manipolare tutto, aggiungendo le figure e modificando l’impianto compositivo. Il passaggio finale è stato il trasferimento dell’immagine digitale al supporto di intonaco fresco e successivi interventi pittorici.
Perché quest’opera si chiama Locus Solus?
Quando stavo lavorando alla preparazione dell’affresco mi è capitato di leggere Locus Solus di Raymond Roussel (1914). Stavo lavorando ad alcune delle immagini e dei personaggi. Locus Solus è il racconto di un inventore che all’interno del suo giardino crea delle macchine surreali, delle invenzioni impossibili capaci anche di riportare in vita le persone. Il racconto mi ha colpito per le sue analogie ritrovando alcune figure che avevo inserito anche dentro il romanzo. Per questo ho voluto dare questo titolo.
In effetti qui c’è qualcosa di folle che sfugge al controllo della ragione, c’è un disagio, una distopia. Attualmente sei in mostra anche in Pinakoteka con l’opera “Qualcuno non sia solo”. Molto è stato già detto su quest’opera ma, in un certo senso, vi leggo lo stesso disagio.
C’è senz’altro un disagio. L’immobilità della composizione, gli sguardi seri, le pose scariche di qualsiasi tensione fisica sembrano congelare qualsiasi emozione. Ma la forza di quel gruppo sta nel fatto che l’insieme di tutte quelle abilità che ciascuno dei personaggi deve impersonare finisce per essere una forza.
In questa composizione multimaterica personaggi in ceramica si rispecchiano in un affresco digitale. Ma tu come ti definiresti? Scultore, pittore o cos’ altro?
La mia formazione è indubbiamente quella dello scultore, ho praticato le tecniche della modellazione fin da piccolissimo, sono figlio di artigiani, e ho proseguito gli studi proprio in Scultura all’Accademia. Però credo che su di me abbia avuto sempre un dominio il potere dell’immagine. È qualcosa che sta al di sopra del concetto di tridimensionalità o bidimensionalità. Sta persino al di sopra del medium. Mi interessa la sua forza evocativa ma soprattutto l’impossibilità di essere univoca e inequivocabile.
Negli ultimi anni il tuo lavoro si è sviluppato su due livelli, alla pratica artistica hai associato una pratica d’ archivio e di raccolta d’immagini. Ci spieghi il perché?
Raccogliere le immagini mi serve forse per capire il mondo. Anche per raccontare delle storie. Seleziono e catalogo immagini all’apparenza senza un collegamento. A volte per una forma di assonanza a cose e concetti che le stesse immagini possono suggerire oltre ciò che presentano e rappresentano. In un certo momento, queste immagini prendono un altro corpo, migrando su un altro supporto come un affresco, o una scultura. In questo processo mi piace anche che perdano definizione. Come se, oltre che nella nostra mente, le immagini fisicamente svanissero, perdendo nitidezza e contorni.