La mostra “Il tempo del futurismo”, apertasi il 2 dicembre alla Gnamc di Roma a cura di Gabriele Simongini, sta avendo un grande afflusso di pubblico, prevedibile vista la vastità e ampiezza dell’esposizione: 350 opere esposte (ma si arriva a contarne oltre 500 se si considerano anche materiali documentari come libri, riviste, manifesti), quasi tutti tra i più grandi artisti del movimento presenti con alcuni dei loro quadri più importanti, un corredo di manufatti industriali – automobili, idrovolanti, lampade ad arco, motociclette, telefoni, strumenti scientifici di vario genere –, a testimoniare il rapporto fecondo tra il movimento e la tecnologia, cuore portante dell’esposizione (noi l’abbiamo documentato qua e qua).
Come è ormai largamente noto, però, la mostra è stata preceduta da una lunga scia di polemiche e di oggettive criticità, che non è certo sufficiente derubricare a polemiche strumentali o di parte, e che ha portato a una trafila di dubbi e di ombre e di distinguo, ancora prima che aprisse i battenti, su quella che avrebbe dovuto e potuto essere una mostra “unificante” e non divisiva su uno dei più importanti movimenti artistici italiani della modernità. E che, nonostante i pregi oggettivi che abbiamo sottolineato attraverso i nostri collaboratori (una vasta congerie di opere, un’ampia “leggibilità” da parte del pubblico non specialistico, una certa spettacolarizzazione “pop”, con tanto di manufatti industriali che contribuisce indubbiamente ad avvicinarne un pubblico più giovane e curioso), ha portato non solo critici e studiosi, ma molti giornali, anche stranieri, a denunciarne i limiti e le criticità.
Se, infatti, da una parte il successo di pubblico dà atto della riuscita dell’operazione di “sdoganare” il movimento che vantava la giovane età dei suoi aderenti (“I più anziani fra noi, hanno trent’anni”, scriveva Marinetti nel primo Manifesto del futurismo: “ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili – Noi lo desideriamo!”), non solo per il grande pubblico ma soprattutto per le generazioni più giovani – cosa che dal nostro punto di vista è più che meritevole –, dall’altra non si può non tener conto di una gestione che, ancora prima che la mostra aprisse i battenti, ha rischiato di minare fortemente la credibilità dell’esposizione dal punto di vista scientifico. Che oggi (articoli usciti proprio questa mattina sui principali quoridiani italiani, come La Repubblica e il Corriere della Sera, parlano di “Vetri rotti e allarmi in tilt, gli espositori in fuga dalla mostra sul Futurismo“) si carica di nuovi, pesanti dubbi sulla gestione complessiva della mostra.
Che cosa è successo dunque e cosa sta succedendo a quella che doveva essere la grande mostra sul movimento che aprì le porte a tutte le avanguardie del Novecento? Proviamo a vederlo, per fare un po’ di chiarezza.
Una lunga scia di polemiche che sembra non aver fine
Sintetizzando, anche per i non addetti ai lavori: la scelta di un comitato scientifico, che per molti mesi ha lavorato a richieste di prestito, mai formalizzato ufficialmente, cosa a dir poco singolare per un’istituzione pubblica di grande rilievo come la Galleria d’arte Moderna di Roma, poi “silurato” senza una spiegazione (sembra una questione meramente tecnica, ma non lo è affatto, perché ogni grande mostra che si rispetti deve avere dietro un solido comitato scientifico, che sia garanzia della genuiniutà delle opere esposte e della serietà del percorso espositivo); quello che fin dall’inizio della manifestazione avrebbe dovuto essere il co-curatore della mostra, Alberto Dambruoso, storico dell’arte di indubbia levatura ed esperto dell’opera di Umberto Boccioni, anch’egli mai formalizzato (e poi scaricato malamente) nonostante mesi di lavoro gratuito (e documentato), sulle richieste di prestito delle opere, poi ridotte dalla direzione all’ultimo momento; un “accentramento” delle decisioni, anziché, come avviene in tutte le mostre che abbiano pretesa di scientificità e indipendenza, a un Comitato di studiosi, nelle mani della neo-direttrice della Gnamc, Cristina Mazzantini, con i vertici politici del ministero della Cultura e dunque del governo, che ha fatto dire a molti commentatori, anche non schierati politicamente a sinistra, di utilizzare un museo di grande storia e prestigio come la Galleria d’arte Moderna di Roma (oggi ribattezzata Galleria d’arte Moderna e Contemporanea) come “cassa di risonanza” del nuovo corso culturale della destra al governo: “Da oltre un anno”, scrive il New York Times, “la Galleria d’arte Moderna è stata individuata dai critici come luogo di propaganda governativa”; e Le Figaro, giornale storicamente moderato, rincara la dose, definendola come “il modo in cui la destra di Giorgia Meloni intende ‘cambiare l’egemonia culturale della sinistra’, attraverso le sue nomine e soprattutto il suo modo di ‘guidare’ il lavoro dei curatori delle mostre imponendo le sue scelte politiche e culturali”.
L’accusa della stampa straniera: un uso politico dell’arte
Accuse e polemiche che, va detto, non possono certo essere liquidate come strumentali o campate in aria, se si pensa che, non più di due anni fa, il ministro Sangiuliano, poi dimessosi in seguito all’affaire Boccia, nonché primo sostenitore della necessità di organizzare una grande mostra sul Futurismo, batteva con insistenza (e con qualche ingenuità) proprio sul tasto della cosiddetta “egemonia culturale”, da sempre, a suo dire, in mano alla sinistra, e della necessità di creare, se non una nuova egemonia di destra, una diversa “narrazione” culturale (come se la cosiddetta “egemonia culturale” fosse una questione che si può imporre così, a tavolino, e non un lungo processo che si instaura in seno alla società civile, attraverso il lavoro nelle case editrici, nelle università, nei giornali,nelle scuole, nei dibattiti culturali pubblici). Con alcune iniziative assai contestate: prima con una mostra di non grande rilievo, da molti giudicata fuori luogo in un museo prestigioso come la Galleria d’arte moderna di Roma, dedicata non a un artista ma a un grande scrittore, Tolkien, considerato un “nume tutelare” della nuova destra (la passione degli ex giovani missini, oggi quasi tutti al governo, per Tolkien risale ai famosi “campi Hobbit” che frequentavano in gioventù, sorta di contraltare di destra dei festival e ai campeggi “alternativi” nei quali erano cresciuti i giovani di sinistra); e poi, caso veramente eclatante, non a caso citato anche dal New York Times, della presentazione, nel museo, di un libro di parte come quello scritto da Italo Bocchino, esponente della destra oggi al governo, intitolato ”Perché l’Italia è di destra. Contro le bugie della sinistra”, che ha portato alla protesta di 40 dipendenti del museo per un “uso improprio di un’istituzione pubblica a fini politici e propagandistici” e, come riportato da molti giornali, della conseguente “segnalazione” degli stessi da parte della direttrice ai vertici del Ministero. Risultato? Le dimissioni di alcuni componenti del Comitato scientifico del museo, e una scia di polemiche che ancora oggi non sembra avere fine. Insomma, un pasticcio che una grande istituzione come la Gnam certo non meritava.
Ultime crepe: via l’opera chiave del Futurismo, Forme uniche della continuità nello spazio
Ultimo, brutto tassello di questa lunga coda di accuse, incomprensioni e polemiche, che questo giornale si è astenuto finora dal commentare per dare maggiore attenzione, com’è giusto, all’arte e ai risultati ottenuti anziché alle polemiche interne e ai dietro-le-quinte, non sempre felici e trasparenti, che pure hanno agitato molta della stampa culturale nei mesi passati, è stata la notizia del ritiro dalla mostra di una delle opere che maggiormente caratterizzano il movimento futurista: la scultura di Umberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, di proprietà di un noto collezionista, nonché mecenate, esperto d’arte ed operatore culturale, Roberto Bilotti, nipote di quel Carlo Bilotti che fu grande collezionista, amico e sodale di molti artisti del secondo Novecento, a cominciare da Andy Warhol. Ritiro che, a stare agli articoli appena usciti sui principali quotidiani italiani, potrebbe addirittura essere seguito da altre dinieghi “importanti”: opere che, a detta de “La Repubblica”, i prestatori potrebbero non voler più concedere per la richiesta proroga della mostra stessa. “Anche alcuni tra galleristi e collezionisti, prestatori di opere”, dice Bilotti al quotidiano romano, “sono preoccupati per la sopravvenuta caduta dei requisiti di sicurezza e si apprestano a dire no al rinnovo del prestito per la proroga”.
Ma come si è arrivati, dunque, al ritiro dalla mostra sul Futurismo di una delle opere del Novecento tra le più celebri di Boccioni, riprodotta anche sul verso delle monete da 20 centesimi, e a questa nuova bordata di polemiche che sembra non aver mai fine?
Per capirne di più, lo abbiamo chiesto direttamente a Roberto Bilotti.
Dottor Bilotti, la sua decisione di ritirare l’importante scultura di Umberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio dalla mostra “Il Tempo del Futurismo” presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma ha sollevato molte discussioni, e ora, a quanto si legge su alcuni quotidiani, sembra che il clima di sfiducia possa addirittura allargarsi anche ad altri collezionisti. Può spiegarci i motivi della sua scelta?
Devo subito dire che il curatore Gabriele Simongini è stato propositivo, professionale e ha cercato, fin quanto ha potuto, soluzioni ma hanno prevalso contraddizioni, approssimazioni e irregolarità della direzione che appaiono aver compromesso la credibilità della mostra non solo nell’ambiente scientifico, ma anche da parte di molta stampa, anche estera, mettendo in crisi il necessario rapporto di fiducia che di deve instaurare tra chi presta un’opera e chi ha la responsabilità di esporla al pubblico.
Può entrare nel dettaglio?
Certo. Cominciamo dai problemi strettamente tecnici. Dal punto di vista tecnico non mi è stato fornito alcun documento di assicurazione dell’opera imprescindibile in qualsiasi mostra pubblica, ancor di più se vi sono continue movimentazioni arbitrarie che ne aumentano il rischio. Il 24 dicembre ho chiesto alla direttrice il condition report in entrata e in uscita come previsto dalla Guida per l’organizzazione di mostre d’arte del MIBAC del 2000 ma, soprendentemente, non ho ricevuto risposta. Questo documento, che è a garanzia anche del museo, è fondamentale per registrare lo stato di conservazione di un’opera al momento del suo arrivo in mostra e in uscita. L’opera è entrata alla Gnamc in perfette condizioni, come documentato dai condition report di uscita dell’Onu, dove era stata esposta dal Governo italiano che l’aveva in comodato alla collezione Farnesina, al termine di un tour nei musei di Osaka, Singapore, Tokyo, New Delhi, Seul, Città del Messico nell’ambito della mostra “La grande visione italiana”.
Dunque mostre di grande prestigio internazionale, di cui era responsabile lo stesso Governo italiano…
Sì, in queste sedi, dove è stata esposta dal Governo, attraverso il Ministero degli Esteri, la scultura è stata trattata con tutti gli accorgimenti necessari, omologati universalmente dai musei per tutto ciò che vi entra. Accorgimenti che invece non sono stati rispettati nel caso del prestito alla Galleria d’arte moderna, in cui la scultura è stata trattata come merce: non soltanto esposta in un corridoio buio, poi spostata senza alcuna comunicazione al prestatore, con il rischio effettivo che l’opera si danneggiasse nel corso di tali spostamenti, come risulta essere già accaduto a un’atra scultura di Boccioni in mostra, l’Antigrazioso.
Cos’è accaduto ad Antigrazioso, un’altra delle sculture più importanti di Boccioni e l’unico gesso originale integro dell’artista, di proprietà della Gnamc?
Sembra che Antigrazioso sia stato danneggiato durante l’allestimento: almeno così ha dichiarato il curatore Simongini, che ne ha spiegato il motivo in un’intervista a Repubblica del 19 dicembre scorso: “il danno”, ha detto, “si è verificato mentre la ditta che ne aveva l’incarico la stava spostando”. Incredibilmente, invece, la direttrice ha dichiarato l’opposto, dicendo che, “durante la revisione conservativa preliminare, come da procedure interne, l’opera presentava alcune criticità, e per ragioni cautelative si è ritenuto opportuno approfondire le cause del fenomeno di alterazione”: dichiarazioni che sembrerebbero occultare i danni provocati sotto la sua supervisione, anche perché non viene mostrato il condition report con foto allegate dei danni. Come possono esserci queste dinamiche in un museo statale?
Insomma, una situazione non chiara, che ha creato un clima di incertezza e di sfiducia…
Assolutamente. Se a questo poi si aggiunge, come io stesso ho potuto documentare, che le stesse norme di sicurezza della Galleria appaiono manchevoli, dal momento che si possono vedere numerosi vetri rotti o pesantemente scheggiati su infissi ammalorati e sensori di allarmi sconnessi (come riportato oggi da alcuni quotidiani, ndr), appare evidente che i criteri di sicurezza della struttura appaiono incompatibili con i criteri del facility report che ha accompagnato la richiesta di prestito che viene disattesa dal Museo (criterio n. 3 relativo al Sistemi di sicurezza anti-intrusione del Facility Report). Proprio nel corridoio dove è stata esposta, in un ambiente semibuio, la scultura di Boccioni Forme Uniche, io stesso ho potuto trovare, e documentare, vetri spaccati (oltre che sporchi), canaline sul pavimento passacavi sollevate, sconnesse e staccate, mentre condotti e cavi in gomma e pvc fuoriuscivano e costituivano inciampo al buio, con alto rischio per la sicurezza dell’opera e dei visitatori.
Lei ha lamentato anche un altro problema: quello della didascalia della scultura, che non sarebbe risultata conforme alla corretta definizione dell’opera…
La didascalia dell’opera riportava la dicitura: “Riproduzione”, come se si fosse trattato di una delle tante copie del David di Michelangelo in vendita sulle bancarelle. Questo è molto grave e svalorizza uno dei più importanti esemplari delle sculture di Boccioni oggi esistenti nel mondo, che non a caso il Governo italiano ha esposto con orgoglio in giro per il mondo. Sembra una questione strettamente “tecnica”, ma è invece un fatto molto grave, non solo perché svalorizza una scultura che è stata realizzata, con criteri scientifici indiscutibili, sotto la supervisione di Maurizio Calvesi e secondo la volontà di Marinetti, erede morale dell’opera di Boccioni, ma smentisce anche il governo italiano, che l’ha invece portata in giro per il mondo, con il sostegno dell’Onu, come icona mondiale dell’arte e della creatività italiana.
Ma quindi, che didascalia avremmo dovuto leggere sotto la scultura?
Il termine corretto sarebbe stato “surmoulage“: basterebbe consultare qualsiasi dizionario francese-italiano per sapere che il surmoulage è una tecnica con la quale una fusione in bronzo viene ricavata da un bronzo finito, mantenendo la perfetta aderenza al gesso primario, anche se con il passaggio tecnico da un bronzo. La scultura infatti, come le altre di Boccioni, non è stata creata direttamente dall’artista (i gessi originali sono andati distrutti nel 1927, e le sculture attuali sono state tutte riprodotte postume, seguendo la volontà di Marinetti, ndr), ma ciò non toglie che non si tratta certo di una banale “riproduzione”, com’era indicato nella didascalia. L’errata traduzione non solo era fuorviante, ma ridicolizzava tutti, la mostra, il museo e il sottoscritto come proprietario della stessa. Inoltre non riportava la data 1913, quella del concepimento dell’opera e, solo alla fine, presentava il nome del povero Boccioni, delegittimato di una delle sue creazioni più riuscite. Seguendo i medesimi parametri, la direttrice della Ganmc dovrebbe consigliare ai Musei Vaticani di cambiare le didascalie degli “Arazzi di Raffaello” in “Riproduzioni da Raffaello”, perché l’urbinate non era seduto al telaio a tessere ma le sue composizioni venivano “riprodotte” da artigiani nella bottega di Pieter van Aelst a Bruxelles sui cartoni di Raffaello…
Ha provato a far presente queste incongruenze alla Direzione della Galleria?
Certo. Ma, se inizialmente pensavo che le prove scientifiche potessero essere state ignorate per lo stress dell’inaugurazione, dopo molti tentativi di spiegare le ragioni della necessità di un approccio scientificamente più consono, sono stato costretto a recedere dal prestito. La documentazione che ho inoltrato non ha avuto altra risposta da parte della direzione della Galleria se non quella di rimuovere provvisoriamente la scultura, in maniera arbitraria e senza il mio consenso, poi di riposizionarla con una didascalia cambiata ma sempre fuorviante, e tutto questo senza assicurazione. Una pratica che si rispecchia nell’atteggiamento del tutto discutibile di gestione del Museo, dal momento che, com’è noto perché riportato da molte fonti giornalistiche, la Direttrice è arrivata a segnalare alla prefettura e al Ministero i nomi di ben 40 dipendenti che avevano osato protestare per un uso “politico” della Galleria in seguito alla presentazione di un libro chiaramente di parte, che nulla ha a che fare con gli scopi di un grande museo pubblico. Inoltre la mancanza di un vero comitato scientifico, non solo della mostra ma anche del museo, sembra aver reso la sezione plastica di Boccioni meramente illustrativa, priva di rigore scientifico, che si traduce in un messaggio ingannevole. Tutto questo non poteva che incrinare la mia fiducia come prestatore di una delle più importanti sculture del Novecento italiano.
Una vicenda complessa, che sembra molto tecnica, “da addetti ai lavori”: eppure è uno dei motivi che l’hanno portata a ritirare una delle opere più iconiche dalla mostra… Non è stata una reazione eccessiva?
La mia decisione è arrivata alla fine di molti tentativi di confronto su base documentatale che non hanno avuto mai riscontro. Già il 10 dicembre scorso, appena una settimana dopo l’inaugurazione della mostra, avevo mandato una diffida alla Direzione segnalando queste incongruenze, per cercare di ottenere una descrizione più adeguata all’esemplare in bronzo che più rispecchia la volontà di Filippo Tomaso Marinetti, nonché l’unico realizzato nel rispetto della legge sui diritti d’autore e cessionari dei discendenti dell’artista, di una delle sculture più iconiche del Novecento italiano. Ma non ho avuto alcun riscontro reale a questa mia richiesta. Addirittura, mi è stato proposta la dicitura di “opera tattile”, quasi a inventare una nuova categoria di opera solo per il fatto di metterla a disposizione dei non-vedenti, cosa in sé meritevole, ma che non toglie la necessità di spiegare la vera natura del bronzo da un punto di vista scientifico. Anche Rosalind Mc Kever del Metropolitan di New York, che ha dedicato ricerche, studi e pubblicazioni alle traduzioni postume di Forme uniche, è del parere che la dicitura della scultura non possa certo essere quella di “riproduzione”. In spirito collaborativo specialistico gratuito, ha fatto avere, mio tramite, al museo il suo parere scientifico sulla didascalia, rimasto ignorato così come l’offerta di un cartello esplicativo sintetico della complessa genesi dei bronzi di Boccioni in mostra. Dopo numeorosi tentativi andati a vuoto, ho dovuto per forza ritirare l’opera…
Ci sono state altre ragioni che hanno portato a questa sua decisione così radicale?
L’intera gestione della mostra e del museo hanno certamente contribuito a questa mia scelta. Sa, è difficile ottenere un clima di fiducia, per un collezionista, in una mostra il cui il Comitato di esperti che avrebbe dovuto decidere e vigilare sui prestiti è stato inspiegabilmente sconfessato dopo mesi di lavoro, come molti giornali hanno già documentato, e quello del museo si è dimesso a seguito della segnalazione di Mazzantini di 40 dipendenti alla Prefettura e al Mic, perché avevano osato esprimere il loro disappunto alla politicizzazione del museo in occasione della presentazione del libro di Italo Bocchino, un comportamento che dà adito al dubbio che si volesse subordinare l’arte alla propaganda politica, come denunciato da giornali prestigiosi come il New York Times e Le Figaro. Per fortuna, però, io non sono un dipendente della Gnamc, e ho il diritto di sottrarmi a una gestione che trovo tutt’altro che appropriata… Queste gravi irregolarità, unite alla gestione personalistica e priva di competenze specifiche della direttrice, hanno reso impossibile per me, come prestatore, continuare a lasciare esposta un’opera così importante in un contesto tanto problematico. Non potevo permettere che un capolavoro come Forme uniche della continuità nello spazio fosse coinvolto in una situazione che rischia di creare un vulnus alle opere che vi sono esposte, anziché valorizzarle.
Notizie dell’ultima ora ci rivelano però che ci sono state anche altre ragioni che hanno portato a questa sua decisione, e che questo potrebbe rischiare di compromettere anche la fiducia di altri collezionisti. È corretto?
Sì, a questo si sono aggiunte altre considerazioni in merito alla gestione quantomeno pasticciata dell’intera mostra… il comitato scientifico “sparito” senza lasciare traccia, le prese di distanza di molti storici dell’arte interpellati per farne parte, o addirittura del co-curatore iniziale, Alberto Dambruoso, mai formalizzato dopo mesi di lavoro; il caso, purtroppo eclatante, dell’inserimento nel comitato organizzatore di un comico, il vignettista Federico Palmaroli in arte Osho, e della sua misteriosa parcella: durante la trasmissione Speciale Piazzapulita “Amici Miei” del 19 dicembre, alla precisa domanda del giornalista: “quanto costa Osho?”, la direttrice Mazzantini rispondeva: “niente, non lo paghiamo”, ma appena si abbassavano le telecamere cambiava totalmente versione: “mi deve fare ancora un’offerta… quanto non posso dirlo”. Una serie di contraddizioni che mettono davvero in dubbio la serietà con cui tutta la vicenda è stata trattata… Se a questo si aggiungono le critiche di tanta stampa autorevole internazionale, che mette in dubbio la gestione della Galleria d’arte Moderna come “luogo di propaganda governativa” anziché come luogo di esposizione con criteri rigorosamente scientifici, io non potevo far altro che prendere le distanze da tutto questo, come prestatore e come operatore culturale, come del resto hanno fatto molti critici, storici dell’arte e studiosi italiani prima di me. Ma anche dal punto di vista scientifico, ci sono anche altre cose che non tornano in questa mostra.
Altre incongruenze, dunque?
Opere pubblicate in catalogo che non sono esposte in mostra, benché il sito del Mibac risulti che “il volume presenta le immagini delle opere esposte”, e viceversa, opere che compaiono in mostra e non nel catalogo. E poi altre didascalie delle opere che non tornano affatto: cito, ad esempio, quella sotto il quadro Linea di velocità più forma più rumore di Giacomo Balla, dove si legge l’anno 1915 quando non è stata accertata la data di nascita dell’opera, o quella di un’altra scultura, Sviluppo di una bottiglia, nella quale si omette di indicare che proviene dalla ricostruzione del gesso originale, andato distrutto dopo la morte di Boccioni. Insomma, una mancanza di chiarezza scientifica che compromette la serietà della mostra. Senza dimenticare, come ho detto, i gravi dubbi intervenuti sulla sicurezza delle opere, a causa dei vetri rotti e delle canaline malposizionate.
Un brutto pasticcio, insomma, nonostante le buone premesse di una mostra che si sarebbe voluta grandiosa, e l’ampio afflusso di pubblico che la sta visitando…
Non si tratta solo di un pasticcio, ma di un modo di affrontare una mostra scientificamente così rilevante, e la gestione di un museo prestigioso come la Gnamc, che da parte mia, come collezionista, non può essere in alcun modo avvallato, e che mi porterà anche a presentare un esposto alla corte dei conti perché accerti se si siano consumati danni erariali da parte di chi ha gestito la mostra. E, oltretutto, una questione che, dato il disprezzo dei criteri scientifici con cui è stata trattata una delle sculture più iconiche del Novecento italiano, rischia oggi di mettere seriamente in imbarazzo il Ministero degli Esteri italiano e l’Onu, che hanno portato per anni la scultura di Boccioni in giro per il mondo, con la correttezza con cui una scultura di tale rilevanza deve essere trattata, in mostre pubbliche di grande rilevanza internazionale.