Extinction, Max Papeschi fa il botto a Parigi con la sua “archeologia del futuro”. E dietro le quinte scopriamo che…

Dopo aver debuttato a Milano, con tre tappe successive al Palazzo delle Stelline, all’Aeroporto di Malpensa e al Teatro degli Arcimboldi, il progetto Extinction di Max Papeschi, curato da Stefania Morici, è approdato a Parigi nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano di Cultura, situato nel VII arrondissement. L’enigmatica saga, composta da 54 sculture in terracotta raffiguranti soldati con la testa di gnomo e il corpo dell’esercito di Xi’an, si arricchisce con Full Metal Karma, una scultura in marmo con il corpo di Buddha e la testa di Napoleone. Il progetto, visto attraverso gli occhi di una civiltà aliena, racconta la futura estinzione dell’umanità, mettendo in evidenza una serie di errori e false ricostruzioni. La tappa parigina di Extinction, aperta fino alla fine di maggio, ha già attirato oltre 10 mila visitatori in meno di tre mesi, dimostrando il grande interesse da parte del pubblico francese.

Abbiamo incontrato l’artista e la curatrice e gli abbiamo fatto alcune domande per conoscere e approfondire meglio il progetto.

A Max Papeschi

Nei tuoi lavori usi un’ironia pungente per rappresentare le contraddizioni dell’umanità. Come selezioni i simboli e le figure che meglio incarnano questi paradossi nei tuoi “falsi reperti storici”?

Scelgo icone che sono già radicate nell’immaginario collettivo, figure che funzionano come simboli universali, ma che al tempo stesso possono essere stravolte con un piccolo cortocircuito visivo. L’idea alla base di Extinction è quella di un’umanità ricostruita male da un’intelligenza esterna, quindi prendo frammenti di storia, cultura pop e iconografia sacra e li combino in modi che, a prima vista, sembrano assurdi.

Ma in fondo, lo sono meno di quanto pensiamo. Perché in quale altro mondo avrebbe senso che un clown fast-food sia più riconoscibile di una divinità? O che una statua di Buddha e una di Napoleone possano essere intercambiate senza che nessuno ci faccia caso? Non siamo così lontani da questa distorsione, viviamo già in un’epoca dove la confusione tra mito, consumo e potere è la regola. Io la porto solo all’estremo.

In che modo il progetto presentato a Parigi sviluppa il tema del conflitto come male endemico della nostra società, mettendo in luce il rapporto tra l’umanità e la guerra?

L’umanità non ha mai smesso di fare la guerra. Cambiano le armi, cambiano i pretesti, ma il meccanismo è sempre lo stesso: potere, dominio, riscrittura della storia. In Extinction, i soldati di terracotta con la testa da gnomo rappresentano esattamente questo: l’assurdità di un sistema che si ripete all’infinito, un gioco di ruolo tragico dove cambiano solo le divise. Gli gnomi, nella nostra cultura, sono creature innocue, rassicuranti. Ma qui diventano guerrieri, simboli di un’umanità ridotta a uno schema ridicolo e ripetitivo. Poi c’è Full Metal Karma, Buddha con la testa di Napoleone: la sintesi perfetta del conflitto tra spiritualità e ambizione, tra pace interiore e ossessione per la conquista. L’idea alla base del progetto è che una civiltà aliena, analizzando le nostre rovine, tenti di ricostruire la nostra storia, ma lo faccia male, confondendo le nostre priorità, le nostre divinità, i nostri eroi.

In un’epoca dominata dalla smaterializzazione delle immagini e delle forme, hai scelto di lavorare con materiali antichi e tangibili come la terracotta e il marmo. Quali sono le tue intenzioni espressive e poetiche dietro questa scelta?

Viviamo immersi in un mare di immagini digitali, di contenuti effimeri che nascono e muoiono nel giro di pochi secondi. L’arte è diventata sempre più smaterializzata, fluida, quasi volatile. Ma la storia, quella che rimane, è fatta di oggetti fisici, di reperti, di rovine.

La terracotta e il marmo hanno un peso, una presenza. Sono materiali che evocano il passato, ma nel mio lavoro diventano strumenti per parlare del futuro, o meglio, della sua assenza. Sono un ponte tra ciò che è stato e ciò che (forse) non sarà mai. È anche una sfida, un gioco con la percezione: questi “falsi reperti” sembrano antichi, ma raccontano un futuro immaginario. Un futuro in cui l’umanità è solo un ricordo confuso, un’ombra mal interpretata da chi verrà dopo di noi. 

E chissà, forse un giorno, quando dell’umanità rimarranno solo frammenti, qualcun altro, che sia una civiltà aliena o i posteri, ritroverà queste opere e cercherà di attribuirle a un artista del passato. Magari le interpreteranno in modo distorto, daranno loro un significato completamente sbagliato o affibbieranno il merito a un nome errato. Ma alla fine, non è proprio questo il destino di ogni reperto storico? Essere decifrato, frainteso e ricontestualizzato da chi lo osserva nel futuro?

A Stefania Morici

Come produttrice e curatrice del progetto Extinction, quali sono state le sfide principali che hai affrontato nelle varie tappe di sviluppo del progetto?

La sfida più grande, oltre a quella  reperire di volta in volta le risorse economiche e individuare i vari partner,  è stata mantenere la coerenza narrativa e concettuale del progetto adattandolo a spazi espositivi molto diversi tra loro. Extinction non è una mostra tradizionale, ma un’esperienza che cambia a seconda del contesto in cui viene inserita. Esporre al Palazzo delle Stelline, all’Aeroporto di Malpensa, al Teatro degli Arcimboldi e poi all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi ha significato ripensare l’allestimento ogni volta, tenendo conto non solo delle caratteristiche architettoniche, ma anche del tipo di pubblico e del dialogo che le opere potevano instaurare con l’ambiente circostante. Per l’allestimento ho avuto la fortuna di individuiare in Giovanni Musica l’architetto che ha saputo cogliere l’essenza del progetto. 

Un’altra sfida è stata la gestione dei materiali. Le sculture in terracotta e marmo sono fisicamente imponenti e delicate al tempo stesso, quindi il trasporto e l’installazione hanno richiesto una cura estrema. Ma la difficoltà maggiore, e forse anche la più stimolante, è stata trasmettere al pubblico il senso di questa “archeologia del futuro”, facendo sì che ognuno potesse sentirsi parte di questo gioco di rimandi tra storia, memoria e distorsione culturale.

In che modo l’esposizione a Parigi, all’Istituto Italiano di Cultura, aggiunge un nuovo significato o contesto al progetto, rispetto alle precedenti sedi espositive?

Parigi è una città dalla forte identità culturale e simbolica, che ha sempre avuto un ruolo centrale nella costruzione della narrazione storica e artistica dell’Occidente. Portare Extinction all’Istituto Italiano di Cultura significa inserirlo in un contesto che celebra il dialogo tra le arti e il patrimonio italiano, mettendo in evidenza il legame tra memoria e reinterpretazione del passato.

Inoltre, l’elemento di Napoleone in Full Metal Karma assume qui un significato ancora più forte. L’idea di un Buddha con la testa di Napoleone, presentato proprio in Francia, crea una connessione diretta con la storia del paese e con il concetto stesso di conquista, imperialismo e reinterpretazione culturale. Questo gioco di sovrapposizioni, che è alla base del progetto, trova a Parigi un terreno ancora più fertile per suscitare riflessioni.

Qual è stata la ricezione del progetto da parte del pubblico parigino?

Il pubblico parigino è abituato a confrontarsi con un’arte concettuale e provocatoria, e ha accolto il progetto con grande curiosità e attenzione. Le reazioni sono state molteplici: c’è chi ha colto immediatamente la componente ironica e surreale dell’opera, chi si è soffermato sull’aspetto storico e politico, e chi ha visto in Extinction una riflessione più ampia sul nostro presente e sulla fragilità della memoria culturale.

Abbiamo avuto un pubblico eterogeneo, dagli appassionati d’arte contemporanea agli studiosi di storia, fino a visitatori incuriositi dal contrasto tra le forme classiche e la loro reinterpretazione. Una delle osservazioni più frequenti è stata proprio la capacità del progetto di mescolare sacro e profano, antico e moderno, spingendo lo spettatore a riconsiderare la propria visione della storia e del tempo. Questo dimostra come Extinction sia un progetto che non si esaurisce in una semplice esposizione, ma continua a vivere attraverso le interpretazioni di chi lo osserva.

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