La più grande mostra mai realizzata in Italia su Tracey Emin apre al pubblico domenica negli spazi rinascimentali di Palazzo Strozzi, nel cuore di Firenze. Si intitola Sex and solitude (fino al 20 luglio) ed è curata da Arturo Galasino che di Strozzi è anche valido direttore generale (già annunciato un bilancio di gestione 2024 con parecchi segni +). Non è una retrospettiva – dovremo aspettare il 2026, quando se ne occuperà la Tate di Londra – ma, come spiega Galansino, «una rassegna che procede per temi».

Di fatto, parliamo di una sessantina di opere, molte presentate in Italia per la prima volta, tra cui il neon azzurro che dà il titolo all’esposizione, posizionato sulla facciata principale del palazzo, opera site-specific e perfetto preludio a ciò che vediamo non appena entrati nel cortile interno. Trasportata nottetempo con non poco dispiego di mezzi, la grande scultura in bronzo è figlia delle ultime ricerche dell’artista: I followed you to the end, un’opera del 2024, rappresenta una figura femminile appena abbozzata. Domina lo spazio, si prende il sole e la pioggia che ieri si sono alternati a Firenze e riassume ciò che troveremo al primo piano: intimità, desiderio, passione e solitudine, riflessione, intimità.

Ottimamente allestita, la mostra procede di sopra per temi e libere associazioni e dipana, sala dopo sala, i temi portanti dell’artistar inglese: molto spazio è dato alla pittura, con quelle sue tele materiche e figurative, dove cogli in ogni centimetro il gesto pittorico, l’ “aggressione” del pennello, e al tempo stesso l’abilità tecnica (Emin è diplomata in pittura al Royal College of Arts di Londra, e docente, tra le altre cose, di disegno). Con opere che spaziano da metà anni Novanta ad oggi, seguiamo l’artista in questo suo diario intimo per immagini. «Onestà e sincerità sono le caratteristiche di questa mostra», ci ha detto il direttore Galansino.
Ed è proprio così: anche nei suoi momenti più rabbiosi (quasi sguaiati), anche nelle “poesie al neon” più audaci, Tracey Emin non è mai personaggio: si mette a nudo con sincerità. L’uso stesso del linguaggio – molte delle opere sarebbero bandite dall’algoritmo dei social perché troppo esplicite – è diretto, franco, senza filtri: tutto è viscerale in Tracey Emin che riesce a portare a temperatura elevata anche dei neon all’apparenza freddi (e tra le opere più toccanti in mostra, su fondo rosa, c’è senza dubbio Love Poem for CF, basata su alcuni versi scritti negli anni Novanta per il fidanzato di allora, il gallerista Carl Freedman).

Che l’arte di Tracey Emin sia carnale e viscerale è evidente: commuove quindi, nella seconda sala dell’esposizione, trovare il riallestimento di Exorcims of the last painting I ever made, una installazione del 1996 (presentata per la prima volta in Italia) che documenta il suo ritorno alla pittura dopo anni di rigetto. Apriamo una parentesi necessaria: quello era un periodo complesso per l’artista, uno dei molti, a dire il vero. All’epoca aveva appena abortito e non tollerava nemmeno l’odore della pittura ad olio: per lei, figlia della provincia londinese da una famiglia particolare (padre musulmano turco-cipriota, la madre inglese di origine rom), scappata di casa giovanissima e vittima di una violenza a 13 anni, non era il primo periodo complesso, e neanche l’ultimo. Ridurre tuttavia la sua arte alla sua dolorosa biografia sarebbe riduttivo anche se ieri, durante la presentazione ufficiale ala stampa, ritrovare una Tracey volitiva e raggiante ha aperto il cuore di tanti.

Generosa con i giornalisti intervenuti, ha parlato a cuore aperto della malattia che l’ha colpita quattro anni e mezzo fa: un grave cancro alla vescica che ha richiesto operazioni invasive. «Per un anno non ho avuto la forza di sollevare nemmeno una teiera – ha detto – poi, appena mi è tornata la forza, ero come un banshee (gli spiritelli della tradizione inglese, ndr) e l’atto fisico del dipingere mi ha fatto bene, mi ha riportato in vita. L’arte alla fine mi ha sempre salvata».
È una Tracey Emin forse più “composta e pacificata” quella che ieri si aggirava per Firenze, «sopraffatta da tanta bellezza»: è anche una Tracey Emin più saggia. Non risparmia consigli ai giovani che si affacciano alla professione («keep going: e non lamentatevi se non avete soldi, l’unica cosa che vi serve per creare sono un foglio e una penna») e riflette parecchio anche su sé stessa. «Dopo tutto quello che ho passato sono ancora qui. La malattia mi ha reso più forte e tutto quello che sta succedendo ora, compresa questa splendida mostra a Firenze, per me è una ricompensa. E a chi le chiede se oggi nella sua vita, dopo le scorribande passate, ci sia più sex or solitude, risponde schietta che il suo fisico è cambiato, ma che avere avuto durante la malattia un amore a sorreggerla è stato fondamentale. E sulla solitudine tira dritta: «È il solo modo che conosco per creare. è una necessità».