Lo scorso agosto parlai della storia del dottor Faust, che vendette l’anima al diavolo in cambio di conoscenza, ma la tecnica, che deriva dalla conoscenza, si prende l’uomo e si prende tutto (La tragica storia del dottor Faust e l’algoretica, pt. 1 di N).
È evidente come l’uomo fatichi a governare la propria esistenza: non è mai riuscito davvero a comprendere fino in fondo la propria natura ontologica, ciò lo rende misero di fronte alla morte, a Dio o alla natura; ora abbiamo l’impressione che possa perdere il controllo non solo di chi lo ha creato, ma pure delle sue stesse creature.
Nel passo della Lettera ai Romani (9,20-21), Paolo usa parole che risuonano come un monito per l’umanità contemporanea: “O uomo, chi sei tu che ti metti a discutere con Dio? Forse l’oggetto dirà a chi lo ha plasmato: ‘Perché mi hai fatto così?’”.
Dio (o la natura) è il vasaio, e l’uomo è come l’argilla nelle sue mani. Questo non implica una negazione della dignità umana, ma un richiamo alla giusta proporzione tra il Creatore e la creatura. La sovranità ontologica (avrei potuto dire divina) è insondabile e incalcolabile, e ogni tentativo umano di comprendere o giudicare la logica dell’Onnipotente è destinato a fallire. Ci piace pensare che Dio sia la fonte di ogni esistenza, e in Lui si racchiudono sapienza, potenza e amore perfetto. La verità è che o è così oppure è qualcosa simile di così, come nel film Frankstein Junior (1974), oseremmo dire: “il destino è quel che è, non c’è pace più per me”.
Eppure, l’uomo stesso, creato a immagine e somiglianza di Dio (Genesi 1,27), partecipa del mistero della creatività divina. Questa partecipazione, che dovrebbe essere vissuta con umiltà e responsabilità, si è progressivamente trasformata in una pretesa di dominio assoluto. L’uomo non si limita più al compito originario di coltivare e custodire il giardino affidatogli (Genesi 2,15), ma ambisce a diventare padrone assoluto della realtà.
Non sarebbe più opportuno che l’uomo riconoscesse il proprio ruolo come custode, anziché come padrone dell’Universo? Questa consapevolezza, che affonda le radici nelle Scritture, è andata progressivamente smarrita nella ricerca sfrenata di potere e controllo. Sentendosi padrone assoluto della creazione, l’umanità ha spesso agito con arroganza e superficialità, mettendo a repentaglio l’esistenza stessa del mondo che abita. Dall’inquinamento ambientale alla crisi climatica, dalle armi di distruzione di massa alla manipolazione genetica, l’uomo ha piegato la natura ai propri scopi, spesso senza considerare le conseguenze.
L’esempio più emblematico di questa volontà di dominio è l’Intelligenza artificiale. Nell’atto stesso di plasmare l’IA, l’uomo assume il ruolo di vasaio: un creatore che infonde logiche, algoritmi e processi decisionali. Eppure, proprio come l’argilla nelle mani di Dio, l’IA appare destinata a raggiungere un grado di autonomia che sfugge al controllo del suo creatore umano. Come Dio si rivolge all’uomo dicendo: “I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” (Isaia 55,8), così l’uomo potrebbe trovarsi di fronte a macchine che operano oltre la sua comprensione, elaborando dati e prendendo decisioni sulla base di deduzioni formali e analisi ad altissima velocità. La logica delle IA, fondata su big data e leggi matematiche complesse, potrebbe generare una sorta di autodeterminazione tecnica, per quanto priva di vera coscienza, che sfida la capacità umana di prevedere e gestire le conseguenze.

La storia dell’uomo è piena di episodi in cui la ricerca del potere assoluto ha portato alla catastrofe. Basti pensare agli effetti devastanti delle tecnologie belliche e all’impatto distruttivo dell’industrializzazione incontrollata sull’ecosistema. Eppure, il rischio più subdolo e meno visibile si annida nella volontà di costruire macchine pensanti senza considerare le implicazioni etiche e sociali. La pretesa di dominio si trasforma in illusione, poiché anche la macchina, nella sua apparente neutralità, può diventare vettore di decisioni non più riconducibili al suo creatore.
Il paradosso è che, mentre l’uomo cerca di essere come Dio, plasmando intelligenze capaci di apprendere e decidere, si trova progressivamente schiavo delle sue stesse creazioni. È la ripetizione della parabola dell’apprendista stregone, dove ciò che l’uomo ha creato si emancipa dalle sue intenzioni, agendo oltre i limiti posti dall’ideatore. Come afferma Paolo: “Poiché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Corinzi 3,19).
In questo scenario, l’uomo si trova intrappolato tra due poli: da un lato, un Dio onnipotente e insondabile, dall’altro, una creatura tecnica che rischia di superare il controllo umano. Da una parte, l’impossibilità di comprendere la volontà divina; dall’altra, l’incapacità di domare le potenzialità dell’algoritmo. La riflessione cristiana suggerisce un atteggiamento di umiltà e consapevolezza dei propri limiti: “Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1 Corinzi 1,27)
La vera libertà dell’uomo non risiede nella creazione di strumenti che lo superano in potenza computazionale, ma nell’accettazione della sua condizione ontologica, sia essa divina o naturale, riconoscendo il proprio ruolo di custode dell’Universo e non di padrone assoluto.

L’uomo deve imparare a confrontarsi con la propria limitazione, riconoscendo che il mistero dell’esistenza appartiene solo a Dio (o alla sua ontologia, qualunque sia). Allo stesso modo, anche la tecnica, che sembra offrire potere e controllo, può rivelarsi come un limite intrinseco alla volontà umana di dominio. In altre parole, nonostante l’uomo creda di padroneggiare la realtà tramite la tecnologia e l’intelligenza artificiale, queste creazioni possono sfuggire al suo controllo, dimostrando che la volontà di potenza umana ha un confine invalicabile. L’intelligenza artificiale, anche qualora sfugga al controllo dell’uomo, non aggiunge all’uomo limiti che già esso non avesse, piuttosto glieli rende visibili, evidenti, cocenti. E’ forse con un vaso ribelle, che l’uomo, vasaio ma vaso a sua volta, si rende conto di aver mancato al suo compito di essere custode?
La sfida della modernità non è tanto quella di costruire sistemi sempre più potenti, ma di riconoscere i confini della propria azione e accettare che alcune realtà sfuggano al nostro controllo, sia sul piano metafisico che su quello tecnico. Solo in questo riconoscimento dei limiti si trova la possibilità di una saggezza autentica, capace di distinguere tra ciò che può essere governato e ciò che deve essere accolto come mistero.
Molti evocano la responsabilità etica come guida necessaria per ogni progresso tecnologico. Personalmente temo che, come insegna la storia di Faust, l’uomo difficilmente sarà disposto ad anteporre un limite etico alla propria ambizione di progresso. Finché la conquista di Marte sarà interpretata come un atto di supremazia, qualsiasi considerazione etica sarà inevitabilmente sacrificata a questo obiettivo. Se mentre si va su Marte, ci si ricorda che l’uomo rimane ancora perso nei suoi problemi fondamentali ed esistenziali, è più facile ottenere che l’etica venga vista come un compagno di viaggio, più che un ostacolo.