Negli ultimi anni si è assistito ad una rinnovata affermazione della pittura nel mercato dell’arte: se da una parte digitale e metaverso incuriosiscono gli artisti e invitano alla sperimentazione, tela e colore riacquistano negli interessi dei collezionisti un fascino ormai perduto sul finire del secolo scorso. Una delle artiste che si inserisce in modo consapevole in questa tendenza è Olga Lepri, classe 1997, di origini russe ma cresciuta tra l’Umbria, Bruxelles e infine Venezia. È nella città lagunare che Lepri sceglie di dedicarsi allo studio della tradizione pittorica, in particolare quella veneta e fiamminga, che rielabora alla luce di nuove istanze. L’interesse per l’attività di Lepri nel settore è evidente: dopo la partecipazione a Le Diable au Corps presso la galleria Giovanni Bonelli, a settembre prenderà parte ad Etereo, personale presso il Museo Archeologico di Calatia e alla mostra Aere della rassegna Isola Prossima al Museo civico Palazzo della Penna di Perugia, dove saranno esposte opere di artisti come Piero Manzoni, Arcangelo Sassolino, Gino De Dominicis, Gerardo Dottori, Leonardo Erlich, Schilpa Gupta sul tema dell’aria.
Nel corso dell’intervista l’artista ci racconta della scelta di designare la pittura come medium espressivo, dei personaggi fantastici e onirici che popolano le sue tele, oltre che delle difficoltà per un’esordiente di farsi spazio in un sistema sempre più elitario.
Dal tuo curriculum emerge una formazione piuttosto variegata: Bruxelles, Venezia e poi Foligno. Quale influenza hanno avuto le suggestioni ricevute da queste realtà così diverse tra loro e come si ripercuotono sulla tua cifra stilistica?
Il filo conduttore nella mia esperienza è uno sguardo aperto e rispettoso sul mondo. Cresciuta in un ambiente multinazionale, sono abituata da sempre alla multiculturalità e a prospettive plurime. Questo mi ha spinto a ricercare dei valori particolari come l’equilibrio tra linguaggi e segni diversi, la vitalità dei contrasti, la ricerca di concetti multiprospettici, la complessità della natura umana e il senso di casa nell’elemento naturale, la dimensione astratta dell’introspezione e del trascendente.
Ogni luogo che hai citato significa per me un importante bagaglio aggiuntivo di memoria e di identità che riaffiora sottilmente nel mio lavoro: penso all’importanza della luminosità che ho ereditato dal clima belga e dalla pittura fiamminga, le vibrazioni di macchia e di colore assorbite dalla Laguna e dallo splendore di Venezia, la profondità della terra e dello spirito della mia Umbria dove ho scelto di collocare il mio studio. Stilisticamente sono molti gli aspetti che vado a considerare e permutare.
Parallelamente a una generale tendenza a favore delle nuove tecnologie o dell’installazione, negli ultimi anni si osserva una progressiva riaffermazione della pratica pittorica, soprattutto nella sua forma più tradizionale e con un frequente ricorso al figurativo. Secondo te a cosa è dovuto? Solo un ritorno ciclico o affermazione di un nuovo gusto?
La pittura vive ciclicamente di morte e riscoperta, dichiarate e smentite. Penso alla Transavanguardia descritta come un ritorno alla pittura in epoca post-moderna o alla mostra alla Fondazione Prada dal titolo provocatorio Stop Painting attraverso cui il curatore e artista Peter Fischli ha dimostrato un costante e ostinato bisogno degli artisti di tornare all’espressione pittorica nel corso del tempo. Direi che già solo per questo la pittura sia per me una pratica interessante da declinare sotto varie angolazioni: un monologo collettivo, una scommessa, una sfida.
Inoltre, la pittura è una traccia fondamentale della storia dell’uomo e del suo pensiero, poiché assume il potere multiforme di testimonianza, di rappresentazione, di documento, di diario, di finestra sul tempo. Trovo che ciò sia possibile grazie al gesto fisico e diretto, che contiene molte informazioni stratificate e dalle molteplici letture possibili generando un linguaggio complesso che va oltre la superficie.
Di fronte a situazioni di crisi, la figurazione sembra risorgere. Pensiamo all’avvento della seconda guerra mondiale e al bisogno degli artisti di lasciarne una traccia complessa e d’impatto. É come se la composizione figurativa fosse un dispositivo tramite cui costruire interrogativi ad ampio raggio e su scala universale. Forse questo è ciò che si sta evidenziando nuovamente oggi, a molteplici livelli e non solo in pittura. Nel mio lavoro ricerco sempre le potenzialità di ibridazione tra la forma, principalmente quella del corpo umano, e la sua astrazione verso forme naturali, perché trovo che sia un processo che lascia spazio a un maggiore stimolo interpretativo e che registra al contempo la mutevolezza e i moti irrequieti del contemporaneo.
Qual per te è la motivazione dietro la scelta del pennello e dell’olio? Cos’è per te la pittura?
Prediligo la pittura per la sua organicità, la plasticità, la versatilità. Abbinando pittura ad acqua alla pittura ad olio, penso sempre in termini di stratificazione profonda dell’immagine. La traccia diretta su tela con la sua varietà di gesti, così prossima al disegno, insieme alla sensibilità al colore, sono forti leve che mi spingono verso il linguaggio pittorico.
A dire il vero, mi piace intendere la pittura con un’accezione molto più vasta della mera materialità tecnica o dell’atto cosciente di dipingere. Chiamo con il termine “pittura” ogni forma di espressione sensoriale stratificata e poeticamente autonoma che mi capita di isolare dal reale, in natura o in alcune opere che osservo, anche non attinenti al medium pittorico.
Dal mio punto di vista, una ricerca pittorica non esclude l’integrazione in fase di produzione o di esposizione l’utilizzo delle nuove tecnologie o dell’installazione; forse molto più raramente avviene il contrario. Nel mio processo uso il collage cartaceo e digitale di miei disegni per costruire le mie opere pittoriche. Questo perché trovo importante attingere dal mio stesso lavoro, amplificarlo, esasperare la traccia grafica per forzarla a diventare pattern pittorico, mantenendo sempre un dialogo attivo e personale con gli sviluppi dell’arte. Inoltre, sempre attraverso la flessibilità interdisciplinare della pittura, ho esplorato anche la tecnica dell’animazione che mi piacerebbe integrare prossimamente ai miei lavori pittorici in forma installativa. Si tratta di una tecnica che mi attrae sin dall’infanzia e che considero una pratica artistica a 360°.
Un limite e un punto di forza della pittura?
Penso che i limiti facciano parte del gioco, è qualcosa di naturale che si impara a conoscere e gestire.
La pittura che più mi interessa ha un processo che si sedimenta e si costruisce strato per strato nel tempo, dall’idea fino ai passaggi finali. A volte questo può essere un limite rispetto ai ritmi frenetici del pensiero contemporaneo, che trovo tuttavia stiano cambiando, muovendosi verso una lenta riscoperta del tempo e del suo spessore.
Trovo che la bidimensionalità, per quanto rappresenti un limite fisico oggettivo, sia invece un punto di forza della pittura: in essa può svilupparsi la profondità, la flessibilità e l’energia. Questo limite fisico diventa un elemento condiviso con lo spettatore: mentre io lo affronto in fase di ideazione dell’opera, lo spettatore vi si scontra in fase interpretativa e di fruizione della stessa. É nello spazio confinato del supporto pittorico che cerco di innescare una dinamicità delle forme e della composizione, ordino una varietà di strati sfruttando la grande versatilità della pittura, penso all’immagine pittorica come a un sistema in grado di riversarsi oltre gli argini del confine fisico stimolando la memoria, i sensi e l’interpretazione attiva dello spettatore.
Quali sono i tuoi modelli di riferimento?
Più che dei modelli specifici mi incuriosiscono alcuni sviluppi del pensiero artistico, delle attitudini o certi passaggi logici che hanno caratterizzato l’arte, soprattutto in epoca moderna. Sono incuriosita dall’approccio adottato dagli artisti di fronte a questioni che riemergono a distanza di tempo: lo sviluppo dello sguardo sull’uomo è la costante che più mi affascina.
Guardo all’impressionismo, al futurismo, al cubismo per immaginare il primo impatto decostruttivo di una realtà sempre più frenetica e in cambiamento. Guardo al manierismo di El Greco, iconografie bizantine e russe, le sculture di Rodin, il simbolismo o l’espressionismo, fino alle libere pennellate di Cecily Brown per cogliere un senso di vitale speranza. Oggi mi sto informando sulle tecniche della pittura ad acqua orientali, come quella usata nella pittura Gongbi.
Uso fonti visive pertinenti alle mie ricerche aiutandomi con un vasto archivio di immagini che raccolgo dalle visite a gallerie e musei o da internet. Per esempio, ho iniziato a mescolare alla pittura il segno grafico e l’anatomia guardando artisti come Jirí Anderle, perché mi interessava lavorare sulla stratificazione in più direzioni nell’immagine. Oppure per la ricerca attorno al tema della cecità sono partita dalla pittura fiamminga e da Pieter Bruegel il Vecchio fino ad arrivare a Giuseppe Penone con il suo “Rovesciare i propri occhi”.
Moltissimi modelli strutturali o di pattern li trovo osservando la natura e si rivelano spesso un vero stimolo propulsivo per il mio lavoro.
In generale, trovo fondamentale approfondire sensibilità e tecniche diverse: comprendere la cultura visiva delle proprie origini, ma tenendosi aperti e aggiornati sul contemporaneo.
Analizzando la tua produzione, si intuisce la volontà da parte tua di procedere per “serie” con protagonisti i medesimi soggetti. Ci spieghi questa scelta? Cosa rappresentano nel tuo immaginario gli attori dei tuoi dipinti? Costituiscono dei rimandi metaforici specifici?
Il soggetto che personalmente trovo più interessante e complesso da esplorare è la natura umana nella sua relazione con il sé, con l’ambiente e con il reale. Penso che il corpo umano sia un inevitabile punto di partenza di ogni osservazione, interrogativo o cambiamento sul mondo.
In una prima serie di lavori i soggetti che esploravo erano rurali o liminari, in stretto contatto con la natura: pescatori o mamuthones. Quell’approccio pittorico, ispirato all’espressionismo, rifletteva sull’esistenza quasi mistica di queste creature.
Calandomi nello studio di un corpo non vedente e nei suoi movimenti ho cominciato a esplorare pittoricamente le innumerevoli sfumature del concetto di cecità. Così in alcuni lavori, come nella serie Cecità, ho lasciato prevalere la pittura su un corpo che è andato astraendosi dalla sua forma convenzionale. In altri lavori intendevo invece lavorare figurativamente, superando la classica iconografia del cieco ed evidenziando le lezioni di orientamento, di ascolto e di propriocezione che i non vedenti ci insegnano. É un cantiere ancora aperto, data la complessità e le potenzialità poetiche del tema. Uno dei suoi sviluppi mi ha portato al soggetto del corpo sognante.
Negli ultimi lavori, come Pangea, la metafora ruota sulla relazione tra forma del corpo e forme naturali, una messa in discussione del rapporto forma-funzione, una pareidolia al rovescio. Dalle forme anatomiche umane passo per esempio alla forma in movimento di un’onda pensando all’inquietudine umana e alla sua emotività che assume forme archetipicamente naturali.
I rimandi al cinema o alla letteratura sono pure presenti, come in Ladro di nidi (Blind Kid) ispirato a una scena del film di documentazione sperimentale Blind Child di Johan van de Kreuken; oppure Rosso e Nero, una delle opere realizzate per il recente progetto di mostra Le Diable au Corps presso La Galleria Giovanni Bonelli – Bonelli LAB a Canneto sull’Oglio, che fa diretto riferimento sia al romanzo di Radiguet che a quello di Stendael. L’abisso che é in te, presente nella stessa mostra, riprende una frase pronunciata dalla Sfinge ad Edipo nell’adattamento cinematografico Edipo Re di Pasolini: “l’abisso in cui mi spingi é già dentro di te”.
Questi stessi soggetti non sembrano avere degli attributi fisici definiti, seppur riconoscibili, risultano quasi proiettati in una nuova dimensione. Per molte tue tele hai scelto termini come “Cecità”, “Etereo”, “Hypnagogia” e “Oneiroi (alle porte del sonno)”: ci racconti questo legame nelle tue opere con il tema della vista e del sogno?
Per me la pittura cela e rivela, è un sistema di strati e accostamenti, di punti luce e di contrasti: essa evidenzia la non scontatezza del reale. L’incertezza del visibile offre l’occasione di innescare l’attività fantasiosa e interpretativa del reale. Per questo preferisco suggerire le fattezze dei soggetti, perché emergano più lentamente dal tessuto pittorico e si abbia così il tempo soggettivo di addentrarsi nel loro stato d’essere.
Rifletto spesso su temi legati al limite del senso della vista nelle sue più svariate accezioni. Dalla cecità percettiva alla cecità metaforica, dallo stato sospeso dell’essere alla propriocezione come corpo onirico, dall’ombra che dà volume al reale alla luce tutta mentale che dà vita alle immagini e alle sensazioni, dal sonno della mente alla vigilia di un sesto senso, dall’occhio alla memoria muscolare, penso che un pittore adoperi molti più sensi della vista prima e durante il processo pittorico.
L’hypnagogia è quel momento di transizione che avviene durante il risveglio: solo l’arte e la poesia sono in grado di dilatare questo lasso di tempo dall’attimo a un’intera vita. Così nel mio lavoro mi piace esplorare quello spazio che si estende tra visione e ciò che non vedo ancora.
Qual è il tuo rapporto con il mercato? Qual è secondo te la difficoltà maggiore per un giovane artista che cerca di inserirsi nel complesso sistema dell’arte?
Penso che il primo vero ostacolo per un giovane artista sia la scarsa informazione che riceve o a cui ha accesso durante la sua formazione in merito al sistema dell’arte dal punto di vista del mercato. Il sempre più comune consiglio che danno ai giovani artisti sull’essere manager della propria attività e sul sapersi quindi gestire e “vendere” è un tema complesso che presenta molte sfaccettature e dipende anche da molti fattori.
Incuriosita dalla progettualità dell’ambito curatoriale, parallelamente alla pratica artistica ho approfondito la conoscenza del sistema dell’arte con un master alla Luiss Business School di Roma dopo gli studi in Accademia a Venezia. Ho poi lavorato intensamente nella nota galleria francese Gallerie Nathalie Obadia per comprendere meglio il ruolo e l’attivita’ svolta da un attore cruciale del mondo dell’arte. Queste ed altre esperienze a cui mi sono esposta, non senza sacrificio, mi hanno permesso di avere una visione molto più estesa della rete di professionisti che lavorano nel sistema dell’arte, del ruolo delle istituzioni che si interfacciano con gli artisti e le loro opere, di meccanismi attraverso cui il lavoro di un artista può raggiungere il pubblico ed il collezionismo.
Conscia della lunga strada che ho davanti e avuta l’occasione di conoscere da vicino il duro lavoro di diversi artisti affermati, ho scelto di basare il mio studio in Umbria dove in questo momento stanno avvenendo degli interessanti cambiamenti in direzione del contemporaneo. Credo fermamente che lo stabilirsi di giovani artisti in questo contesto possa essere un beneficio per il territorio e possa avere un impatto positivo sulla ridistribuzione dell’offerta culturale. Questo passaggio mi ha permesso di intensificare il mio lavoro, arrivando quest’anno a collaborare con alcune gallerie e ad accogliere nel mio studio professionisti di vari ambiti del mondo dell’arte.