Andreas Beyer, “Il corpo dell’artista”

Andreas Beyer, nel suo libro “Il corpo dell’artista”, esamina la relazione tra l’artista e il proprio corpo, distaccandosi dai tradizionali metodi di storiografia artistica che si concentrano su mutamenti stilistici e iconografici. Beyer propone una visione dell’opera d’arte come frutto di precondizioni fisiche e della “tecnologia di sé” foucaultiana. Questo approccio rivaluta la corporeità dell’artista come elemento centrale nel processo creativo, considerando il corpo come un mediatore tra forze collettive e individuali. “In queste pagine”, scrive l’autore, docente d’arte moderna all’Università di Basilea, “vorrei far risaltare l’individuo, presentandolo come un aspetto non secondario e non meno essenziale di quelli già citati: non per ridimensionare il peso dei condizionamenti esterni, ma per quantificare l’apporto specifico dell’Io, il contributo della physis e della psiche di un artista, il ruolo giocato dal corpo e dalla mente”.

Beyer esplora come l’artista utilizzi il proprio corpo per esprimere la propria individualità e come questa autoconsapevolezza influenzi la produzione artistica. Il libro attraversa vari periodi storici, dall’umanesimo rinascimentale fino alle espressioni contemporanee, illustrando come il corpo dell’artista sia stato rappresentato e percepito. Fin dal Rinascimento, la fisicità e la vita quotidiana degli artisti hanno avuto un forte impatto sulla loro produzione artistica, con il rapporto tra corpo e opera che è sempre stato molto stretto. Beyer descrive come molti artisti, tra cui Dürer, Raffaello e Pontormo, abbiano vissuto questo rapporto. Ad esempio, Michelangelo trascurava il suo corpo durante la realizzazione dei suoi affreschi, ma dall’altra parte disegnava non solo i cartoni per i suoi affreschi ma anche le liste della spesa per andare al mercato, mentre Pontormo annotava dettagliatamente i suoi pasti e la digestione.

Albrecht Dürer, Autoritratto con pelliccia, 1500, Alte Pinakothek, Monaco di Baviera.

Dürer, ambizioso e amante degli autoritratti, curava attentamente il proprio aspetto e l’abbigliamento, arrivando a ideare le scarpe perfette per il suo piede. In contrasto, Borromini, insoddisfatto delle sue opere, in un cortocircuito psicologico tra identificazione con la propria opera, finì per togliersi la vita. Beyer evidenzia anche la connessione tra salute fisica e creatività, suggerendo che il processo artistico possa essere visto come una forma di digestione e assimilazione del mondo. Ma la ricerca spazia fino alla contemproaneità, indagando il rapporto tra opera e corpo in artisti come Van Gogh (che com’è noto si tagliò un porecchio in un mimento di disperazione), Marcel Duchamp (che nel 1946 mise in opera il frutto della propria masturbazione su un fondo di satin nero, dandogli il titolo di Paysage Fautif), Marina Abramovic (che ha giocato tutta la sua opera sul rapporto estremo e a volte brutale e quasi masochistico col suo corpo) e Tracey Emin, nota per la sua opera più famosa, My bed, in cui mette in scena il luogo dei suoi amplessi e delle sue delusioni, tra vestiti stropicciati, biancheria intima sporca, bottiglie di vodka, preservativi usati, pillole anticoncezionali e mozziconi di sigaretta.

Marina Abramović, Rhythm 0 (Ritmo 0), 1974. Performance. Napoli, Galleria Morra.

La parabola del libro culmina con la fragilità e vulnerabilità del corpo dell’artista, toccando temi come l’alienazione, la follia e il suicidio. Questi aspetti sono interpretati come espressioni della natura frammentaria e incompiuta dell’opera d’arte, oltre che come forme estreme di autodeterminazione. In questo modo Beyer, spaziando lungo tutta la storia dell’arte, dai grandi maestri rinascimentali fino agli artisti contemporanei, offre una nuova prospettiva sulla fenomenologia del corpo vissuto nell’arte.

Andreas Beyer, Il corpo dell’artista. La traccia nascosta della vita nell’arte, Einaudi, pagg. 303, € 36.

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(A.R.)

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